venerdì 29 aprile 2016

Un cucciolo in saldo.

Ultimamente sono quasi ossessionata dall'idea di prendere un altro cane.
Mi sento la Regina dell'Incoerenza se penso che a Novembre ho spergiurato di non volerne mai più in casa, ma mesi fa il dolore era troppo grande per pensare di dover affrontare tutto di nuovo; mi faceva sanguinare gli occhi.
Sento un vuoto gigantesco fra il petto e la bocca dello stomaco.
Più passano i giorni, più sento che mi manca un pezzo. 
E' che reputo la vita un po' vana se non si riesce nemmeno a prendersi la responsabilità di accudire un altro essere vivente, che sia questo un animale o meno. Che poi, in moltissimi casi, ci si prende cura di animali a due zampe che fanno più danni di quelli a quattro. Ma dettagli.

Mi sono accorta che ho tantissimo bisogno di amare.
Proprio in generale. Perché amare distrae.
Dal resto.
Da tutto.

Quando i miei decisero di esaudire il mio desiderio di prendere un cucciolo, io avevo circa 11 anni. Mi ricordo che una mattina andammo al canile - posto dove non voglio più mettere piede in vita mia - e con il cuore spaccato da tutti quei musi bellissimi e imploranti, ne scelsi uno in particolare.
Una cagnetta di un anno e qualcosa, se non sbaglio.
Non so perché in Italia, a Roma, nella mia vita, ci sia tutta questa disorganizzazione e questa voglia di mettere sempre i bastoni fra le ruote a tutti; e infatti quel giorno tornai a casa senza cane.
Perché al canile, al tempo, si preoccupavano di cazzate burocratiche piuttosto che di questi poveri cristi che marcivano nelle gabbie zozze e umide.

Ma comunque.

Mio padre è uno che quando decide di darti qualcosa, finché non ha trovato il modo per farlo, non si dà pace. E infatti qualche giorno dopo trovò un allevamento che ci indirizzò in un particolare negozio di animali che vendeva un cucciolo proveniente dai loro primi premi di bellezza canina eccetera eccetera. Non che a noi fregasse qualcosa di pedigree e simili, però vabbè.
Così, mi venne a prendere a scuola e mi portò nel negozio in questione.
Aprirono la gabbietta minuscola e ne uscì fuori questo cucciolino bianco, con le orecchie leggermente più scure e il naso rosa.
Fu chiaro da subito che sarei tornata a casa con Luna.
Che poi a casa mia ci è rimasta per quattordici anni. Mica due giorni.

In pratica era arrivata al negozio di animali, dall'allevamento, con suo fratello - che era nero - e non si sa perché nessuna l'aveva comprata. Cioè io lo so perché: stava aspettando me. E con il passare dei giorni il suo prezzo si era abbassato perché, a detta dei proprietari del negozio - che sono i veri cani di questa storia -  se un cane non si vende è perché non è poi così bello.
Era il mio cucciolo in saldo. 
Sì, a volte un cane è una responsabilità così grande che pensi di non farcela. E infatti è così che funziona l'amore. 
Amare è lavorare. Per questo la gente si stanca subito.
Luna aveva le zampine martoriate da escoriazioni di ogni genere perché non era mai uscita dalla gabbia dove l'avevano messa e aveva paura di qualsiasi posto chiuso e stretto; non entrava nemmeno in ascensore.

Non è stato facile, all'inizio.
Non è stato facile per niente. Abituare qualcuno a sentirsi al sicuro è forse la cosa più audace che un essere umano possa fare. E non parlo solo di cuccioli, chiaramente.
Anche se con gli animali è certamente più facile.
Sono stati quattordici anni di amore sconfinato. Di musi giganteschi poggiati sul letto la mattina, di zampate indelicatissime che arrivavano mentre mangiavi, di orecchie morbide da accarezzare mentre in TV mandavano un programma a caso.
Di questo parlo.
E credo di averne ancora bisogno.

Ma forse, senza forse, non è solo di un cucciolo che dovrei occuparmi.
Come tutte le cose belle, anche gli amori incondizionati finiscono e pure male, spesso e volentieri.
Ho visto il mio muso e tutto quel pelo sfiorire nel giro di due giorni, finché non è stato più possibile ignorare quello che sapevamo tutti da tempo.
E infatti, l'amore, ad un certo punto ti viene a presentare il conto e ti chiede di fare l'ultimo gesto tanto brutale quanto sensato.
Prendere il mio cane e accompagnarlo nel suo ultimo viaggio in macchina è stata la cosa più difficile che ho dovuto affrontare nella vita, perché ne ero consapevole dal primo minuto.
E fa schifo.

In certi momenti si è così soli che non bastano mille contatti sul telefono a farti sentire parte di qualcosa.
Ed io mi sento così anche adesso.
Alzare il telefono e comporre un numero a caso non mi basta più, anzi mi rattrista.
Ci vorrebbe così poco eppure pare che questo "poco" sia invece tantissimo.
Non so perché, non me lo spiego.
Ogni giorno è una battaglia, con la gente, con il mondo. Ed io sono stanca e non mi vergogno a dirlo.
Se penso che ancora di anni, presumibilmente, me ne restano parecchi, non so davvero dove trovare il coraggio per affrontare quello che si presenterà.
Io le forze per combattere ce le avrei pure, ma non le voglio usare.
Voglio che sia tutto il più naturale possibile e invece sembra che questa naturalezza sia andata a perdersi chissà dove, chissà come, chissà con chi.

Più il tempo passa, più mi rendo conto di avere paura di essere abbandonata.
E allora se ci penso, forse non è il caso di adottare un altro cane.
Perché inevitabilmente, presto o tardi mi abbandonerà anche lui.
Io non lo so che disegno c'è per me, ma fino ad ora non mi sta piacendo per niente.
Lo vorrei più colorato e più lineare.
Vorrei che fosse un quadro di Emilio Greco, pieno di minuscole e finissime linee che alla fine formano un ritratto preciso e pulito.
Invece adesso mi sembra di essere un Monet, che da lontano pare esattamente quello che vuole rappresentare, ma più ti avvicini, più ti accorgi che invece sono solo macchie e nemmeno tanto uniformi. Solo macchie.
E nient'altro.

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