martedì 29 marzo 2016

Di pomeriggi passati in casa barricati fra le lenzuola.

Ieri sera sono uscita.
Non era la serata giusta per rimanere in casa.
Ci sono giornate che sembrano un continuo attacco terroristico alla tua persona.
Sembra che ogni minuto debba volgere a provocare del dolore, non so perché.

Uscendo dal portone ho visto che sul muretto interno al cortile del mio palazzo c'era una rosa.
Una di quelle che puoi comprare dal fioraio.
Incartata benissimo, appoggiata lì.
Ho trovato che fosse una delle cose più tristi del mondo.
Non sono un'amante dei fiori, anzi.
Gli unici che tollero sono i tulipani. Bianchi. Nessun eccezione, ma quella rosa mi ha incupito.
O meglio, tutto ciò a cui mi ha fatto pensare.

Da sempre quando sono in giro e mi capita di aspettare qualcuno, mi ritrovo ad immaginare le vite degli altri.
Le persone mi passano davanti e io immagino la professione che svolgono, se hanno figli, se sono sposate, se sono felici, se sono tristi.
Mi è capitato di fare lo stesso per quella rosa.
Non so per chi fosse, chi l'avesse comprata, non so nulla.
Trovo semplicemente ingiusto che stesse lì.
Era palese fosse un regalo, forse una dichiarazione.
E mi ha fatto gonfiare il cuore immaginare che non fosse andata come il mittente sperava.

Oggi era ancora lì, la rosa.
Nessuno l'ha reclamata.
Non ho mai ricevuto dei fiori, è vero che non mi piacciono, ma probabilmente il gesto mi stupirebbe talmente tanto che scriverei a tutte le mie amiche per raccontare il fatto.
E di certo non lascerei il mazzo in questione per strada, su un muretto.

Ci raccontiamo sempre che le persone che ci hanno lasciato prima o poi ci rimpiangeranno.
Credo sia solo uno step necessario per superare al meglio le situazioni difficili e le mancanze.
E' dura accettare che, forse, solo forse, alcune persone non rimpiangeranno mai le loro scelte, che non sentiranno mai la nostra mancanza e che vivranno la loro vita senza sentire di affrontare le giornate senza un pezzo.
Senza avvertire una fitta proprio lì, nel petto, ogni mattina.

Quando meno te lo aspetti arrivano ricordi come sciabole.
E' in quel preciso momento in cui, sospirando, ci si raccontano le bugie.
Ci si dice che va tutto bene, anche se fa ancora male.
Che le cose poi cambiano.
Non lo so se è vero, ma ci spero.

Il mio cervello si è talmente assuefatto alla sensazione dell'effetto placebo, che non lo avverte più.
Non c'è scampo.
E' un vortice.
La Primavera mi sta facendo del male, queste giornate di Sole mi ricordano ancora una volta che non sono pronta ad affrontare questa stagione, non così.

I mesi passano ed io non faccio altro che contare i giorni, come succede dopo un incidente quasi mortale.
L'uomo è fatto per ricordare le date importanti.
E mi fa un po' schifo pensare che fra le mie date importanti ci siano un sacco di date funeste.
Quasi come se non si potesse mai lasciar indietro, nemmeno per un secondo, il male.

Pensare a quest'estate mi fa paura.
Già tremo al pensiero, perché sarà un'estate come tutte le altre estati prima dell'ultima.
Arriverà il giorno del mio compleanno e non saprò accettare il fatto di avere un anno in più, insieme a qualche decina di pianti in più e qualche chilo in più sulle spalle e qualche pensiero in più nella testa.
Ma soprattutto non saprò accettare la solitudine.
L'essere contornata da gente che di me sa poco e niente e non avere una via di fuga, non avere un cuore in cui rifugiarsi e spalle larghe nelle quali riposare.

Ci penso in anticipo, perché ho paura.
E' come sapere di star andando contro un treno in corsa e non poter far niente per fermarsi.

martedì 22 marzo 2016

Take me out tonight, because I want to see people and I want to see Life.

Non so nemmeno da dove cominciare.
Da giorni sembra ci sia un'energia particolare che mi porta a rivivere ogni singolo ricordo, di ogni singolo giorno, senza un motivo apparente.
Ma io non voglio ricordare e cerco di distogliere così tanto il pensiero che mi fa male la testa e mi sale la febbre.

Già da un paio di notti ho ricominciato ad addormentarmi piangendo, senza accorgermene.
Sono lì che fisso il soffitto, con la testa vuota e libera da ogni pensiero e gli occhi iniziano a gonfiarsi di lacrime, allora li chiudo in fretta e cerco di non guardare più niente e spero di addormentarmi in pochi secondi.

Non riesco più a spegnere la luce durante la notte.
Mi sveglio sempre con la luce accesa e mi sento una bambina di cinque anni che ha paura dei mostri sotto al letto. 
Invece di anni ne ho ventitré e ho paura dei mostri che stanno fuori, dal letto.

Da tempo la gente intorno a me ha cominciato a parlare dell'Irlanda, di Dublino.
Vengono a chiedermi consigli su come spostarsi una volta arrivati, dove dormire, dove mangiare, dove fare un sacco di cose. Ed io non capisco, perché adesso? Perché a me?
In Irlanda ho lasciato un sacco di cose, la speranza prima fra tutte. E mi sa che quella non torna più.
Tu in Irlanda, nella nostra casa perfetta, nel quartiere perfetto, hai lasciato la maglietta di una squadra a caso. Quella verde che mi piaceva un sacco.
Ma la maglietta la ricompri. La speranza no.

Ogni tanto, la mattina, allungo il braccio nel letto e rimango sempre sorpresa ricordandomi che ho passato l'ennesima notte in solitudine.
E mi sento così stupida anche solo per esserne rimasta sorpresa, ancora una volta.
E' tutto un susseguirsi di eventi strani e senza senso.
Spero con il tempo di perdonare tutto il dolore che mi è stato inflitto.
Per dare lo smacco morale a chi ha pensato bene di poter abusare del mio tempo e della mia persona; e anche per dare uno smacco morale a me stessa.
Guardarmi allo specchio e dire "ehi, visto? Ci sono cose che non fanno più male."

Una cosa non te la perdonerò mai: avermi dato l'illusione che le cose possano cambiare. In meglio.
La vita si può affrontare in tanti modi e a me piace avere l'idea che le cose belle possano accadere, prima o poi. E' come un faro nella notte, questo pensiero.
Come un qualcosa che è proprio dietro l'angolo, solo bisogna trovare l'angolo giusto.
Ma prima di spogliarmi dell'armatura che con tanta fatica mi ero costruita, avrei voluto sapere fino a che punto avrei potuto farlo.

Lo so, non ci sono garanzie. Mai.
Scherzavo e ti dicevo che ormai avevi perso lo scontrino e non potevi più cambiarmi e tu ridevi e dicevi che tanto non avresti voluto farlo. E poi l'hai fatto.
Mi sento quasi come la mia povera Fiesta blu, che dopo anni di onoratissima carriera, è stata rottamata e rimpiazzata da una Suzukina piccola e nera. 
Ma io nella nuova macchina ho portato un sacco di cose che erano in quella vecchia.

Il volante peloso, ad esempio.
Che fa schifo a tutti, ma è un ricordo anche quello.
Favilla, il pony giallo con le alucce.
Che nessuno capisce il perché stia lì, ma io sì e va bene così.
E tante altre cose che sembrano inutili, ma sono pezzi indispensabili di un puzzle che mi riguarda.

Chissà se anche tu, in quel nuovo cuore, hai portato qualcosa del mio.
Alda Merini scrisse "Quelle come me" e non so se avesse previsto che, a distanza di tanti anni, quelle sue righe mi avrebbero fatta piangere come una fontana, sempre.
Ci sono persone che parlano per gli altri. Ed io vorrei essere così.

"Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto."

Nulla è per caso. Mai.
Sono sempre stata dell'idea che le cose siano scritte, che le persone nel mondo si cerchino.
La nonna di una mia amica diceva sempre che ogni privazione è in realtà una nuova occasione.
Sarà, ma io devo ancora capirla bene sta cosa qui.

Ci sono parole che ti arrivano nel petto come una scarica di proiettili gelidi.
Spero che le mie, a loro tempo, siano state esattamente così.

Qui andiamo sempre di corsa, sempre.
Io invece vorrei mettere in pausa tutto.
Estraniarmi per un po', guardare il mondo dall'esterno.
Fermarmi. Osservare. Respirare. 
E poi ricominciare, ma con calma.

E' tutto così veloce che non si fa in tempo a tirare un sospiro di sollievo che subito bisogna stringere i denti per la prossima batosta.
Ho incassato così tanti colpi che adesso alcuni non li sento più e mi dico che è normale.
Questa è la cosa peggiore.
Dirsi che è tutto normale.

A volte mi capita che le persone mi trattino male, probabilmente nemmeno se ne accorgono.
Ma quello che penso è che è normale.
Che è così che gira il mondo.
Che siamo qui per combattere.

Ma chi l'ha detto?
Ma perché dovremmo passare la vita a difenderci?
Io vorrei avere una mamma orsa che mi difende a costo della vita. Ogni tanto ne ho bisogno anche io.
E invece bisogna dormire con un coltello sotto al cuscino, tutte le notti.
Perché sia mai ci si lasci andare un po', sia mai.

La gente ha sempre così tanta paura.
Anche io ne ho, ma ho più paura di restare ferma.
Di perdere occasioni.
Di guardare da fuori quello che potrei vivere facendo un misero passo in avanti.

Non concepisco questa affannosa corsa verso l'intercambiabilità delle persone.
Come fossimo figurine.
Celo, celo, manca, celo.
Io non ho voglia di collezionare cuori, come diceva Califano.
Anche perché, come diceva sempre lui, i ricordi rimangono là.
Anzi, questo supermercato dell'esistenza mi ha stancato diverso tempo fa.

Siamo in Primavera.
Questa cosa mi agita.
Manca poco all'Estate e so già che quest'estate piangerò.
Ci sono tante cose che non tornano e vorrei pareggiare i conti prima di aprirne di nuovi.

E' tutto impilato su se stesso e si regge grazie ad un equilibrio così precario che se mi respiri accanto crollo senza nemmeno accorgermene.
Vorrei girare con un cartello appeso al collo con scritto "Guasto", come si fa con gli ascensori o i bagni fuori servizio.
Ché magari a qualcuno viene voglia di metterci le mani e mi regala qualche ingranaggio nuovo.

Così magari torno nuova anche io.

martedì 15 marzo 2016

Vorrei avere il tempo per sfogliare Vanity Fair.

Il titolo non è a caso.
La Domenica è il giorno in cui la vita si prende una pausa, dicono.
Non si lavora, non si va a scuola, non si fa niente.
Che poi questo "niente" assume un sacco di sfumature diverse e alcune pure scontate.

Non è un segreto che io detesti la Domenica, da sempre.

Le mie domeniche sono scandite dai pranzi in famiglia, dai litigi e dai pomeriggi passati a trascinarmi dal divano al letto, dal letto al divano, con un'insoddisfazione generale e un groppo in gola che non va mai via.
E nemmeno di Domenica mi riesce di prendermi una pausa, dal mondo. Più o meno.

La settimana ricomincia e sento di non aver raggiunto il giusto livello di relax per partire al meglio. O partire e basta, alla fine.

Ultimamente ho riflettuto tanto sulla precarietà generale che sfocia in ogni singola situazione, ogni singolo istante. Ci sono fasi della vita che sembrano interminabili, ma non lo sono.
E ci sono fasi che si spera passino in fretta e magari non finiscono mai.

E di nuovo, costantemente, questa maledetta fottuta legge della relatività.

La legge della relatività ci ha inculato sotto tutti i punti di vista.
Con lei niente ha più fondamento, niente ha più senso perché tutto è relativo. Tutto.
Pure i rapporti umani e ciò che ne concerne.
Bello schifo, se ci vai a pensare.

Certe cose non le metto in discussione, mai.

Sono così e basta. Non c'è giustificazione, non c'è teoria che regga.
Alcune cose vanno prese per ciò che sono, punto.
Nessuna dietrologia, nessun sottotesto. 
Sono così e basta. Così e basta.

Non mi sono mai posta limiti nei rapporti umani.

O bianco o nero, o dentro o fuori, o ci sei o te ne puoi andare a fanculo prima di subito.
Poi magari ti porto nel cuore dieci anni, ma nel frattempo stammi lontano grazie.
Crescendo sono diventata più brava.
Nei miei confronti, dico.

Non so cosa sia stato, ma adesso sono meno masochista.

Ho imparato a non scrivere papiri interi per sms nella speranza possano cambiare qualcosa, a distanza di mesi o anni.
Ho imparato ad alzare il telefono se qualcosa non mi torna, senza aspettare che sia il mio di telefono a  squillare.
Ho imparato a saltare certe canzoni, se queste mi fanno male.
Ho imparato che a volte vivere senza qualcuno fa schifo, ma succede e non ci si può fare nulla.

Da quando sono nata ho sempre pensato che chiunque facesse parte della mia vita fosse un dono o qualcosa di simile; come se le emozioni che certe persone mi hanno fatto provare fossero uno sporadico regalo fatto da non si sa bene chi o cosa.

Quando mi capita di conoscere una persona potenzialmente interessante, senza che questo comprenda per forza un interesse di tipo sentimentale, mi viene da credere che sono quasi io la sola ad essere fortunata.

Il 2015 è stato l'anno in cui mi sono sentita la persona più fortunata del mondo e avevo il potere di far sentire importante qualcuno.

Oggi mi dico che, forse, quello che pensavo fosse un regalo per me, una ricompensa per qualcosa, alla fine, non fosse altro che il contrario.
Quasi come se la mia utilità nell'anno passato fosse quella di dar da mangiare all'ego di qualche idiota (non proprio a caso, poi. Ndr.)
Dev'essere bello avere qualcuno che ti fa sentire importante. Dico davvero.

In ventitré anni non mi sono mai sentita importante per nessuno.

No, non voglio fare la quattordicenne emo che vede tutto nero. 
Lo dico con un certo rammarico.
Non mi sono mai sentita indispensabile. Sono sicura che qualche capoccione starà pensando "ma nessuno è indispensabile". E allora andatevene a fanculo.
Ci sono cuori che sono indispensabili.
Luoghi che sono indispensabili.
Sensazioni che sono indispensabili.
E ahimè, anche persone che sono indispensabili.

Certo, non si muore di mancanze.

Soprattutto se le mancanze si legano con qualche rapporto spezzato.
Non si muore di questo, siamo tutti d'accordo, ma si impara a vivere senza un pezzo. E, come la metti la metti, sta cosa fa schifo.
Poi arriva il giorno che di pezzi ne hai persi un po' troppi, ti fermi e ti accorgi di camminare da solo.
Questo mi fa vomitare.

Mi sembra davvero stupido da dire, ma è così sbagliato chiedersi se esiste qualcuno che si sente fortunato ad avermi nella sua vita?

La solitudine esiste e spesso si maschera da contatti giornalieri ed insistenti.

Ho conosciuto persone così sole da essere piene di gente intorno. Tipo me.
Ché se poi tiri le somme della tua vita, facendoti due calcoli, ti accorgi di quanto tutto quello che hai intorno sia in realtà il frammento del frammento del frammento di ciò che sarebbe dovuto essere. E non è.

Ogni tanto vorrei essere abbracciata.

Sono diventata come quelle persone che non potendosi permettere qualcosa dicono di non averne bisogno. Sarà per questo che quando qualcuno si avvicina troppo mi sento in imbarazzo estremo.
Ecco, vorrei non sentirmi così.

Un abbraccio in silenzio. 

Solo questo.
E poi possibilmente dormire, per non dover affrontare le conseguenze.
Dormire e basta.
Per non dover dire una parola, perché dopo gli abbracci a cosa serve parlare?
È tutto lì.

Ogni giorno qualcuno se ne va e altrettanto spesso qualcuno torna.

Ma non si potrebbe restare senza incombere in questo frenetico vortice?
No, troppo facile. Figuriamoci.

Marianna era una mia amica.

Una sorella non di sangue. 
Quasi un'anima gemella.
Capitano anche queste cose nella vita.
Non è detto che l'anima gemella di una persona sia per forza l'altra metà della mela, cari miei limitati mentali maledetti.

Si perdono accendini, scontrini, bollette, persone e anche anime gemelle.

Il problema è che poi le strade si dividono davvero e non c'è ponte che possa essere ricostruito.
L'umanità potrei averla scritta io per quanto fa schifo.

La dottoressa dice che bisogna amarsi.

Io le credo.
Non so come si faccia eh, ma credo abbia ragione.
Se penso a me stessa mi viene da ridere, perché sono consapevole di essere tante cose e per questo non mi spiego come per altri io sia semplicemente niente.

Ecco, ancora: relatività.

Che fastidio.

Forse non c'è una soluzione.

Forse non c'è un rimedio.

Ma negli anni che mi restano da vivere spero quell'abbraccio ci sia.

E se ci penso davvero mi sento una povera illusa.
Ma ci sono cose su cui non si discute.
Perché sono così, così e basta.

E se necessario aspetterò tutta la vita per quella sensazione di stanchezza mista a completezza che solo certe emozioni sanno darti.

Non so se sia una perdita di tempo, ma accenderò tantissime ipotetiche ed immaginarie sigarette aspettando passi questo autobus.

Vorrei essere, a volte, un'altra persona.
Con un'altra vita.
Vorrei svegliarmi la mattina e sapere di essere qualcuno completamente diverso da me. Anzi, vorrei proprio ignorare l'esistenza di persone che siano come me, vorrei essere anni luce lontana da quello che sono ora.
Per questo vorrei avere il tempo di sfogliare Vanity Fair.

Per essere quella che non sono.
Ma poi anche le riviste finiscono e tutto torna ad essere quello che è sempre stato. 



Anche io.

lunedì 7 marzo 2016

Mal di testa e di Universo.

Il più grande problema in assoluto è la consapevolezza.
Pagherei oro per non essere consapevole, di niente.
Svegliarmi la mattina e non sapere. Non riesco ad immaginare niente di più bello.
Lo so, sembra che uno voglia scegliere la via più facile, lo scenario più fattibile e forse è anche vero, ma ad oggi, dopo giorni che alla fine, sommati, diventano anni che a loro volta diventano una vita intera; mi viene solo da dire che sono stanca.
Stanca di sapere.
Stanca di dover fare.
Stanca di dover reagire.
Stanca di dover combattere.
Stanca di tutto.

E' vero che non ci si dovrebbe mai arrendere, in generale, nella vita.
Ma ogni tanto sarebbe anche bello poter prendere coscienza del fatto che alcune cose sono semplicemente impossibili da risolvere da soli. 
Non è la solita retorica del cazzo, la solita solfa, i soliti quattro pensierini partoriti in una serata noiosa. Non è questo.

E' che quello che per gli altri è normale routine, per me è solo una corsa contro il tempo senza arrivare mai.
Senza poter mai neanche aver presente un traguardo da raggiungere.
Pensavo di essere una persona con grandi sogni, ho scoperto che l'unico sogno che ho è quello di trovare equilibrio.
Non covo particolari desideri e ho solo paura ad andare avanti.
O meglio, sento questo bisogno incessante di attraversare queste giornate convinta possano portare da qualche parte, ma al tempo stesso ho paura di scoprire cosa ci sia dopo.
E grazie al cazzo, si potrebbe dire. Ma nemmeno in questo caso è così semplice.

Qualche volta mi sorprendo a pensare e ripensare ad alcune cose e la parte peggiore di queste è che sono sempre le stesse da almeno un decennio.
Almeno un decennio fatto di paure e incomprensioni verso me stessa.
Se guardassi indietro non vedrei altro che macerie, non ho costruito niente, non vedo niente di solido nel mio passato. E ovviamente nel presente. Figuriamoci poi nel futuro.

Ultimamente qualcuno mi ha detto che voglio tenere tutto sotto controllo, che sono una di quelle persone che non si lascia andare. Una di quelle persone che io critico dalla mattina alla sera, fondamentalmente.
Non mi sento così. Non mi reputo un pezzo di ghiaccio, anzi.
Ma mi sono fatta un esamino di coscienza, di quelli che consiglio caldamente sempre a tutti quanti voi.
Bisogna prendersi cinque minuti della propria vita, esaminare la realtà dei fatti, essere certi di inserirsi in essa e guardare bene cosa si presenta davanti ai nostri occhi e come.
Bene, dal mio esame è uscito fuori che sono una povera stronza.

Che novità, si potrebbe dire.
Il problema di tutti noi è questo: essere poveri e stronzi allo stesso tempo e alla continua ricerca di qualcuno che sia povero e stronzo esattamente quanto noi.
Non succede mai.
Siamo tutti poveracci allo sbando più totale in completa solitudine.
Sì, oggi mi sono svegliata bene. E' evidente.

Dal mio esamino è uscito anche fuori che probabilmente sono satura. Senza probabilmente.

Insomma, sono ventitré anni - non proprio due giorni - in cui il fine ultimo delle mie giornate è quello di dimostrare a qualcuno chi sono. Praticamente io mi sveglio per gridare al mondo che esisto.
Lama a doppio taglio, la personalità.
Sì, perché nella vita, nell'universo, si fanno discorsi di plastica. Ti vengono a raccontare - loro-  di quanto sia importante il carisma, quanto sia importante il modo di fare, quanto sia importante quello che suscitiamo negli altri. Tutto questo è importante.
Poi però, nel momento in cui si iniziano a scoprire le proprie carte, da importante si passa ad opprimente. 
L'umanità è veramente banale.

Allora ci ho pensato a questa cosa del controllo.
Giacché ero lì mi sono detta di spendere due minutini anche per questo nuovo concetto che mi è stato attribuito. Ebbene: io non so se sia vero, non so se sono una maniaca del controllo. Probabilmente no.
Ma so che ho il terrore di fare un passo falso da un momento all'altro, questo lo so.
Ho paura che il mio spostarmi possa crearmi problemi.
Non posso pensare di fare un salto nel vuoto, nonostante io lo voglia davvero tanto, perché so che il vuoto non esiste e prima o poi il fondo arriva.
Arrivare al fondo vuol dire sbatterci la faccia in pieno, rompersi probabilmente tutte le ossa e non sapersi rialzare nemmeno dopo la migliore delle fisioterapie.
Se questo vuol dire essere maniaci del controllo allora alzo le mani.

Non so se sono ossessionata dall'ordine, ma so che vorrei chiudere la porta di casa, spogliarmi di quello che sono, piangere a dirotto e lasciarmi andare senza riserve.
Sì, perdere il controllo di tutto e non volerlo nemmeno recuperare.

Ogni tanto piacerebbe anche a me non dover essere la responsabile di me stessa e avere qualcuno pronto a leccarmi le ferite a fine giornata.
Non voglio essere giustificata e non voglio inutili e compassionevoli sguardi, questa è una guerra, la guerra di tutti ed io combatto la mia parte, per la mia Patria. Che poi sono solo io.
La sera, prima di dormire, raccolgo i pezzi della giornata appena trascorsa, li rimetto insieme come posso e spero che l'indomani non ci sia troppo vento. 
Ché la mia colla non è così potente e potrebbe trasformarsi tutto in polvere. Di nuovo.

Pessoa diceva di avere mal di testa e di Universo.
Non è un caso che sia il mio scrittore preferito di tutti i tempi.
Quando penso che è esistito qualcuno che ha parlato per me anni e anni prima, non mi sento poi così speciale, in fondo.
E questo è un altro grande problema.
Mi chiedo sempre, tutti i giorni, se nel mondo possa davvero esistere qualcuno capace di farmi sentire così, speciale.
Quando ci penso poi rido. E poi piango, un po'.
Perché la risposta la so ed è amara quanto il caffè dello Zio D'America senza zucchero, quasi più amara dei cappuccini viennesi. 

Non lo so se è la sindrome premestruale o semplicemente il resoconto del mese che si sta presentando adesso, so solo che sento dei brividi lungo tutta la schiena e le braccia e il collo e le gambe e mi arrivano le lacrime agli occhi, un nodo in gola e il cuore giù nello stomaco se realizzo quanto mi fa male tutto ciò.

Ma non mi vergogno più.
Vorrei solo non sapere.
Vorrei solo non essere così stanca.
Vorrei solo capire.

E vorrei che tutto questo passasse, ma possibilmente non sopra di me.

martedì 1 marzo 2016

Marzo.

Marzo è una promessa, dice Cremonini.
Io non so esattamente cosa mi aspetto da questo mese. O da questo anno, in generale.
Probabilmente non mi aspetto niente.
Ed è forse lo scenario migliore possibile.
Vivere senza aspettative è una gran fortuna, quando ci si riesce.

C'è un momento, la notte, nel quale non esiste niente.
O meglio, sono piena di pensieri, ma sono solo pensieri. Sono solo istanti. Vivi o morti. istanti.
In quel momento, in quella parentesi minuscola, non devo combattere con niente e nessuno.
Sono più o meno libera.
Ho solo il dovere di scivolare in maniera più veloce possibile verso il sonno, sperando che questo mi porti a riposare.
Passano quelle cinque o sei ore - o più, se sono fortunata - ed è di nuovo mattina.
Riapro gli occhi, affilo unghie e denti, sciabola in tasca e tento di alzarmi per affrontare un'altra giornata.

Mi auguro che questo cambi.
Ad oggi il regalo più bello che potrei farmi, sarebbe quello di svegliarmi senza che questo comportasse battaglie di alcun tipo.
E addormentarmi, sapendo che sono solo cinque o sei ore che mi separano da un'altra normalissima giornata.
In effetti mi rendo conto sia una richiesta gigantesca da fare a me stessa, ma tant'è.

Questo Inverno è stato inverosimile.
E il fatto che ci fosse sempre il Sole ha solamente reso il tutto più finto. Come di plastica.
Come un pugno che ti arriva in piena faccia, ma costellato di diamanti.
Quasi come a voler dire che non te ne puoi lamentare.

La gente non ha rispetto per il dolore altrui.
Che sia mentale o fisico, semplicemente il rispetto non c'è. Mai.
Appena succede qualcosa di brutto sono tutti lì pronti a dispensare consigli, regole, aforismi, insegnamenti e altre robe mai sentite prima che in quell'occasione riemergono come cadaveri buttati a mare.
Ti ammali e ti senti dire che passerà, che gira, che l'influenza se la sono presa tutti, che non ci si deve lamentare.
Vieni lasciato e devi sopportare, oltre all'incessante rumore del tuo pensare, anche chi si arroga il diritto di dirti come devi sentirti, quello che devi provare, quanto devi essere incazzato, quanto basito, quanto amareggiato e quanto sia sbagliato invece stare male perché è perfettamente inutile.
Sì esatto: la gente, tutti, il mondo intero, nei momenti di dolore arriva da te e mascherandosi dietro una toga da giudice e gli occhiali da intellettualesotuttoiodistocazzo, ti dice che soffrire è inutile.

Come se non ci avesse già pensato Pavese, poi.

Potresti subire un lutto, anche.
E nonostante questo ci sarebbe sempre qualcuno, lì, in piedi, con il dito puntato a dirti come reagire.
A Novembre è morta la mia cagnetta, dopo quattordici anni d'amore, un giorno, così, è arrivato il suo momento.
L'amavo così tanto che vedendola soffrire in silenzio, l'unica cosa che ho potuto fare è stata prendere le chiavi della macchina e accompagnarla nel suo ultimo viaggio.
Persino in questa situazione gli altri hanno qualcosa da dire.
Sì, perché si passa dallo sminuire al drammatizzare, così, senza senso.
"Non ci preoccupiamo così tanto quando muoiono i cristiani e per i cani soffriamo il doppio" o anche "Vabbè, ma quattordici anni per un cane sono tanti, la vita sua l'aveva fatta".
Esatto. Bisogna fare i conti con questo genere di cose. Sempre.
Non importa quanto sia doloroso l'accaduto, qualcuno, lì fuori, saprebbe gestirla meglio di te.

Ognuno, nella sofferenza, sia per malattia, lutto, fine di un amore, licenziamenti e quant'altro, reagisce a modo suo e questo ai più infastidisce.
Per questo ci si ritrova a vergognarsi di soffrire.
Ad aver paura di dire, a distanza di - quasi - due mesi, che sì, in realtà stai ancora soffrendo come un cane per quel bastardo che un giorno ha deciso di lasciarti senza se e senza ma.
Quasi come se fosse una colpa, quasi come se il resto del mondo non ci sia mai passato.

Onestamente non mi interessa.
Non mi interessa nulla.
Non so ancora come elaborare la moltitudine di lutti che ho alle spalle, la moltitudine di dispiaceri, la moltitudine di momenti passati a fissare il muro per non incappare in qualcosa di troppo tagliente.
Già trovo che sia un bel risultato riuscire ad alzarmi dal letto la mattina.
In questa fase così delicata della mia esistenza ho capito una cosa, una cosa che non avevo mai capito, sembrerà pure una banalità, ma ciò di cui adesso sono cosciente è che posso essere fiera di me stessa.
Sembra poco, ma è basilare.

Non so dove sono e non sono nemmeno tutta intera, ma sono in piedi. Più o meno.
E l'ho fatto da sola. Non importa come, non importa quando, non importa niente.
Importa solo una cosa: uscirne.
E se uscirne vuol dire affrontare le cose così come vengono, senza uno schema preciso, senza un disegno già pronto, allora ben venga.

Io sono pronta. O almeno, so che voglio esserlo.