lunedì 22 febbraio 2016

Ma quando scende la sera, lo sai, che quel sorriso non dura….

Il problema di quando parti è che poi torni a casa.
Venerdì ho preso un treno, l'ennesimo. Alle 07:15 ero in stazione, con una valigia vuota e un cuore gonfio.
Guardavo il tabellone con apprensione, aspettando uscisse il binario e mi veniva quasi da piangere pensando che, praticamente sempre, le evasioni sono a tempo determinato.
Mi è sempre piaciuto guardarmi intorno. Per strada, dico.
Sì perché c'è una varietà immensa di persone, intorno a noi tutti, ma non la vediamo mai in fondo.
Non osserviamo. Ci hanno tolto anche il tempo di fare questo, di osservare.
Nella frenesia generale, soprattutto cittadina, è impossibile concentrarsi sui dettagli ed è un vero peccato.
Perché, sarà pure un detto scontato, ma quanto è vero che sono proprio i dettagli a fare la differenza?
Alle 10:57 sono arrivata  a Foggia.
Certo, non la più gettonata delle mete turistiche, ma per fortuna la vita ed una certa strada intrapresa anni fa, mi hanno portato a conoscere gente in ogni dove. E quei pochi che valgono sono ancora qui, anche se lontani. 
Arrivare in una realtà completamente diversa fa bene. Distoglie.
Venerdì mattina sono stata catapultata in un film. Mi sembrava di star vivendo una vita diversa o una vita non mia. Ed è forse la sensazione più bella che esista, quando il periodo che precede questo sentimento è di un grigio che fa paura.
Avere qualcuno che si prende cura di te è bello.
Chiunque sia.
La Puglia mi ha lasciato tanto e forse mi ha tolto anche di più.
Ho un amico lì, si chiama Alessandro. Ogni tanto mi insegna qualcosa sulla sua Terra, sul suo dialetto, sulle sue usanze e mi avvicina sempre un po' a immagini che prima ignoravo.
Lui non sa quanto ha significato per me questo weekend fuori porta. Forse non lo sa nessuno.
Ho passato giornate infinite, fra scogliere scoscese e paesini del Gargano, dalle vie talmente strette che in due si fa fatica a starci.
E' vero che quando si va via dal Sud si piange, esattamente come quando ci si arriva.
Ho conosciuto un'altra parte del romanticismo ed ho immaginato scenari fastidiosi e smielati, per quelle vie così indecentemente strette e piene di storia. 
Mi è venuta voglia di mostrare a qualcuno queste - non così nuove - scoperte.
La nonna di Alessandro è nata nel '35. 
A pranzo mi ha raccontato cosa volesse dire vivere a Foggia durante la guerra e con gli occhi bassi e la voce un po' rotta, mi ha detto che, quando si è trovata a scappare in un paese vicino, più alto del livello del mare, da lontano vedeva gli aerei bombardare la sua città e piangeva. Aveva otto anni.
Mi ha raccontato anche di quando esplose una bomba nel palazzo davanti al suo, in una zona nuova e residenziale, che fu la prima ad essere colpita. La signora Annamaria era per strada in quel momento e sua madre gridava il suo nome disperata tentando di ritrovarla. E per fortuna infatti la ritrovò, piena di polvere e un po' rintronata dall'esplosione.
Abbiamo condiviso un po' di ricordi insieme, io e questa donna meravigliosa.
Le ho raccontato anche io qualcosa e lei mi sorrideva in modo così gentile che quasi mi commuoveva.
E quasi mi commuovo adesso nel ripensarci.
Le mani nodose dei nonni e le loro storie piene di vissuto vero e sincero sono un patrimonio da coltivare sempre e per sempre. 
La signora Annamaria ha gli occhi azzurri, li ha presi da sua mamma, mi ha detto.
Ha detto anche che sua madre era bellissima e mi ha mostrato una foto per rendermi partecipe di questo. Aveva ragione. 
Ho incontrato persone nuove, una giovane coppia che ha da poco avuto una bambina.
Mercoledì si sposeranno. E nonostante tutto, ho pensato che in fin dei conti, ogni cosa è possibile.
Perché come sempre, all'inizio e alla fine di ogni cosa, come sottofondo e come contorno e come pavimento e come tetto, vi è sempre sto cazzo di Amore.
Amore Amore Amore.
Che due palle. Sarebbe più facile vivere sapendo che l'Amore non esiste, che è un'invenzione dell'uomo, che è solo retorica. Sarebbe più facile.
Peccato che purtroppo bisogna farci i conti sempre. E tocca anche a quelli che fanno i duri e puri, quelli disillusi, quelli amareggiati, quelli stoici, quelli razionali, quelli impauriti. A tutti.
Perché, come si dice a Roma, "a chi tocca, nse ngrugna". Ahimè.
Ho incontrato anche qualcuno del mio passato. O non troppo passato. O qualcuno del mio passato, ma che in fondo appartiene anche al mio presente e, forse, una minima parte di me spera che possa appartenere anche al futuro. Chissà.
Ho guardato il mare, di nuovo. Da vicino.
Non lo vedevo da Maggio. Avrei voluto vederlo più spesso, sono sincera. Ma qualcosa me lo ha impedito.
Davanti al mare, dopo aver fatto mille foto per ricordare quel momento, ho iniziato a pensare.
Ma non c'era niente.
Nella mia testa c'era talmente tanto, che non c'era niente.
Non c'era l'Università, non c'era mia madre, non c'era il mio cane, non c'era Roma, non c'era il cuore, non c'era il cervello, non c'eri tu, non c'era nessuno. Forse non c'ero nemmeno io.
Nella mia testa non c'era niente, tanto quanto invece c'era tutto.
C'era l'Università, mia madre, il mio cane, Roma, il cuore, il cervello, tu, tutti gli altri e forse anche io.
Quello che so è che c'era un vento fortissimo.
E come dice Giorgio Canali, verrà un vento caldo a cancellare questa umidità. Bisogna solo aspettare.
Ma il vento, in Puglia, era freddo. Ancora freddo.
La sera ho ritrovato un po' di quella goliardia che non mi lascia mai.
Vecchi amici, vecchie storie.
Certe situazioni non cambiano mai. Cambia tutto il resto, ma quelle mai.
Come non cambia il fatto di ricordarsi da dove si viene e dove si vuole arrivare.
Non cambiano certe canzoni.
Non cambiano nemmeno le sensazioni in merito.
E me ne sono accorta sull'autostrada, mentre la macchina di Alessandro tornava verso la città.
La musica andava e in quelle parole ritrovavo il mio passato. Ma anche un po' del mio presente.
E, come al solito, probabilmente, un po' del mio futuro.
La storia, come la vita, è ciclica. E non possiamo essere così presuntuosi da credere che alcune cose non torneranno mai. Anche le più brutte, purtroppo.
Alessandro ha un cane, si chiama Hedo.
Ha circa cinque anni. E si è affezionato a me.
Rientrando a casa, vedendolo scodinzolare, ho avuto un tuffo al cuore ogni santissima volta.
E affondare le mani nel suo pelo lungo e bianco mi ha ricordato quanto mi manchi avere un cane per casa.
Già, perché mettiamoci anche questa: non mi è passata per niente.
Anzi mi viene anche un po' da piangere se ci penso.
Allontanarsi da Roma, a volte, fa bene.
Ti aiuta a riprendere il contatto con la realtà. E ti aiuta a tornare a casa e fare i conti con la vera realtà, quella che è meglio dimenticare. Anche se non si può.
Sabato sera sono andata a dormire con la morte nel cuore ed il terrore di tutto.
Al pensiero di dover tornare sentivo una morsa allo stomaco.
E' più facile gestire i problemi, quando si è lontani. Troppo facile. Infatti non si può fare.
Domenica mattina, mentre ricomponevo la mia valigia, pensavo a quanto e come farmi coraggio.
Pensavo che avrei dovuto riprendere in mano tutto. Che a Roma si ricomincia.
E che, in fondo, Roma te lo dà sempre il modo per ricominciare. Pure quando non vuoi.
Il treno di ritorno speravo non arrivasse mai e invece puntuale come un orologio svizzero. Ho trovato il mio posto, ho letto per tutto il viaggio. Ho cercato di dormire con scarsi risultati e ho ascoltato una signora parlare con un'altra signora. Dirle quanto si trova bene in Puglia, nonostante lei sia romana.
Le diceva, con una potentissima calata romanesca, quanto sia bello vivere in un posto che ha il mare vicino e le diceva che era contenta di tornare nella Capitale, perché avrebbe rivisto i suoi parenti. Suo fratello, in particolare.
Il pensiero di te a volte resta al suo posto, tacito e nascosto. Come un'amara consapevolezza che ormai ha trovato il cantuccio comodo - anche se per me un po' meno.
Altre volte invece arriva prepotente, come una lama gelida nel petto. E non ci posso fare nulla.
Questo mi uccide.
Ieri sera, tornata a casa, dopo una doccia interminabile, ho iniziato a ricomporre i pezzetti delle mie giornate. Ho iniziato a pensare alle cose belle vissute in due giorni.
E ho iniziato a pensare che forse sono sulla strada giusta, anche se ancora il traguardo è lontano.
Oggi ho ricominciato le lezioni all'Università.
Ho conosciuto delle persone nuove, il che già di suo mi sembra un record. Ho anche un po' riso.
Tornando a casa, in macchina, ho riesumato un vecchio CD fatto anni fa.
Mi è passata letteralmente una vita davanti. La mia.
In certe canzoni mi rivedevo a diciassette anni, sotto il palco, a farmi conoscere e riconoscere da tutti, mi vedevo in giro per tutta Italia, sempre sotto al palco, sempre sotto allo stesso palco degli stessi gruppi.
In altre canzoni mi vedevo in camera, più o meno alla stessa età, rinchiusa in quattro semplici mura, che più che un rifugio, erano e sono una prigione.
In altre canzoni ancora ho rivisto semplicemente tanta gioventù e tanti cambiamenti.
Canali, sempre lui, ha scritto una canzone.
Ne ha scritte tante in verità e molte parlano di me. Ma una in particolare mi strazia il cuore.
Letteralmente, fa così:

Tutti gli uomini della tua vita, in un'unica puntata
di volti, odori, stronzate già sentite, bugie miscredute,
se soffi via la polvere è un lento scorrere di guardi, di ricordi, di cose capite troppo tardi, di sottotitoli per "nontroppobrillanti",
di magici istanti dilaniati dalle esplosioni delle suonerie personalizzate che annunciavano indiscrete lieti eventi. Altrui. 
Tutti gli uomini della tua vita...
uomini in esclusiva, uomini solo in prova, uomini raccattati nel pattume, uomini coperti di piume, di insulti, dimentichi i volti, ricordi, brividi nella spina dorsale, chi ti ha fatto male, chi ti ha resa felice, chi "nonsidice" per pudore, per amore, proprio o improprio che sia.
Uomini scappati via, uomini lasciati fuori dalla porta a marcire, uomini da due lire.
E' un lento scorrere, se soffi via la polvere.
Per questo resti da sola, ma lo sai che prima o poi ci cascherai ancora, come un'idiota ti innamorerai di un altro idiota ancora 
Lo sai, lo rifarai. Sarà la primavera, sarà che gli idioti sbociano, come fiori sugli alberi.

E balli da sola, con mille occhi su di te e lasci senza parola ogni idiota che ti vede sorridere.
Ma quando scende la sera, lo sai, lo sai, lo sai che quel sorriso non dura. 
"Love will tear us apart again".


Questa più che una canzone, è un mantra.
Per due minuti e mezzo ho sopportato il fastidio di guidare con gli occhi lucidi e il cuore un po' pesante.
E ho pensato, di nuovo, perché non mi fermo mai, ho pensato che questa è una giostra.
Una giostra infima, sudicia, probabilmente anche un po' malandata.
Ma ormai ci sono e la devo mandare avanti. Che senso avrebbe, altrimenti, restare dove sono?
Soprattutto perché dove sono non c'è niente di buono. Non più.
E così resto da sola, ma lo so, lo so, che prima o poi ci cascherò ancora e come un'idiota mi innamorerò di un altro idiota ancora. Lo so, lo rifarò. 

Sarà che gli idioti sbocciano come fiori sugli alberi.

lunedì 15 febbraio 2016

Ma che cosa succede quando non si piange più?

Da piccoli si piange sempre, un po' per tutto.
E' il modo che ha quel piccolo corpo, quel piccolo essere, di sfogare quelle piccole frustrazioni.
Sì, perché è tutto piccolo, tutto rapportato e contestualizzato in un'età così tenera che fa male anche solo pensarci, ai pianti dei bambini.
Forse bisognerebbe imparare a piangere da grandi.
Io con il passare del tempo avevo disimparato.
Ad un certo punto avevo smesso.
Non so cosa sia esattamente successo. So solo che, da un giorno all'altro, ho smesso di piangere.
Detta così sembra una gran figata.
Ah, hai smesso di piangere, beata te! 
Beh no, non è proprio così.
Smettere di piangere fa solo più male.
E' come se tutte le lacrime che hai dentro non uscissero mai, non si affacciassero mai al mondo, non spuntassero fuori nemmeno quando è davvero necessario.
Poi qualcosa si è sbloccato. Oltre le ghiandole lacrimali, intendo.
Di punto in bianco un'emozione.
E, ahimè, quanto fanno piangere certe emozioni.
Ho imparato nuovamente a piangere, a sfogare certe frustrazioni. Che non sono più tanto piccole.
Ed ho imparato a piangere di cose belle.
Tutti dovremmo piangere di cose belle, sempre. Affrontare i sentimenti con la stessa leggerezza con la quale si affronta una mattinata di Primavera.
Con lo stesso cuore di quando finalmente arrivi davanti al mare.
Sì, perché io il mare lo odio, ma ti da sempre quella sensazione lì. Quella di esserci davanti.
Quella di farti scoppiare il cuore. Non so perché, è così e basta.
Il mare, ad esempio, è una di quelle cose per cui piangere.
Ci ho passato una vita intera, in spiaggia. Poi sono cresciuta e ho capito che non faceva per me.
Ma mi fa sempre lo stesso effetto.
Mi inquieta e mi rattrista. E mi da anche un po' di speranza.
Magari un giorno ci tornerò. Chissà.
Magari ricomincerò a fare anche questo. Imparerò a tornare al mare. Forse.
Nel duemilaquindici ho pianto un sacco.
E' stato l'anno in cui ho ricominciato. Potrei addirittura segnarne la data sul calendario.
Potrei ripercorrere giorno dopo giorno, pianto dopo pianto. E saprei per certo, che ogni giorno ed ogni pianto sono valsi a qualcosa. Quasi tutti.
Crescendo si piange per cose grandi. Anche se grandi non si è.
E invecchiando si piange per cose nuove, mai vecchie.
Non so da cosa dipenda, non so cosa comporti.
So solo che non si finisce mai, in fondo, di piangere. Ma mi piacerebbe che non si finisse mai di emozionarsi.
In vita mia ho provato tantissime cose.
Tantissime sensazioni e tantissimi fastidi.
Gli stessi dettati da cose, da persone, da situazioni che in primo luogo mi avevano emozionato a dismisura.
Questa è la doppia faccia delle emozioni.
Ti danno tantissimo, solo se sei disposto a perdere tantissimo. Io ho sempre giocato.
Non mi sono mai tirata indietro, perché non credo possa servire a qualcosa.
Mi sono ripromessa di non essere mai come le persone che mi hanno fatto del male. Sembra una stupidaggine, ma non voglio ritrovarmi a trent'anni a pensare a come sarebbe potuto essere se quel giorno mi fossi fidata un po' di più, se avessi amato un po' di più, se avessi combattuto un po' di più.
Non voglio guardare indietro giudicandomi e pensando che avrei potuto dare il massimo che il mio cuore riesce a dare, senza averlo fatto.
Non mi merito una vita - e una vecchiaia - di rimpianti.
Ho giurato a me stessa che avrei sempre amato con il cuore, altrimenti non avrei amato per niente.
E ho giurato al mio fegato che avrei ricominciato a piangere.
E ho promesso al mio cervello e al mio corpo e a tutto il resto che avrei odiato, tanto sì, ma sempre con cognizione di causa.
Nella vita non si può odiare, è fisicamente impossibile, antropologicamente sbagliato, odiare chi prima non si è amato. Sarebbe un controsenso.
Ad oggi posso dire di portare molto rancore. Tantissimo rancore.
Mi appesantisce, sì, ma mi tiene sempre vigile. 
a Gennaio ho pianto molto.
Ancora mi porto dietro qualche strascico. La mattina mi sveglio e ripeto come un mantra che posso farcela, che posso passare le ore successive facendo qualcosa di buono o facendo qualcosa e basta.
Arrivata l'ora di cena, faccio un resoconto della giornata e mi chiedo se sono stata in grado di non deludere le mie aspettative.
Allora guardo attentamente, ripercorrendo ogni ora trascorsa e mi dico "forse sono rimasta immobile, ma sono ancora qui".
Il fatto di "essere ancora qui" vuol dire che sono in quella fase di transizione temporanea, liminale, quella che mi porterà altrove. Anche se non so esattamente dove. E forse nemmeno mi interessa più di tanto.
In Antropologia questo percorso ha un nome: Rito.
O rito di passaggio.
Viene scandito da tre stadi:
Quello di separazione, dove l'individuo si stacca dalla posizione che occupava in precedenza.
Quello di transizione, dove l'individuo è alla spasmodica ricerca di una nuova posizione da occupare, contornandosi di persone che possono essergli utili, persone nella sua stessa fase di ricerca e transizione.
Ed infine, lo stadio di reintegrazione, dove l'individuo viene reinserito nella società con un nuovo ruolo.
Un nuovo obiettivo.
Ecco, sento che sto aspettando quel momento. Il momento in cui riuscirò perfettamente ad integrarmi di nuovo in qualcosa. Anche in qualcuno.
Ma adesso il tormento di non sapere dove andare, non sapere cosa fare, non sapere con chi parlare, non sapere chi amare, chi aspettare, mi schiaccia e mi destabilizza davvero davvero, davvero tanto.
Ho un vuoto temporale alle spalle, non so come sono arrivata dove sono ora e ho paura di arrivare da qualche parte, senza saper raccontare il percorso che ho fatto. Perché non l'ho vissuto.

venerdì 12 febbraio 2016

Le profezie che si auto-avverano.

Non bisogna mai dire "non ce la faccio".
Il primo esame che diedi all'Università trattava proprio di questo.
Sociologia della Comunicazione.
Era interessante. Ed è stato il mio primo 27 sul libretto.
Non male, alla fine.

Insomma, fra i saggi da studiare c'era quello delle profezie che si auto avverano.
Che poi, se vai a vedere, si avverano sempre e solo quelle in cui metti tutto il tuo lato negativo.
Le altre mai. Chissà perché.
Il saggio diceva che la mente è potente, si sa. E che ogni cosa, dalla più banale, alla più seria, è dettata soprattutto da quello che ne pensiamo direttamente o indirettamente.

Quindi, se si pensa di non essere abbastanza preparati per superare una sfida, un esame, una prova, un colloquio, è praticamente certo che non lo passeremo.
Allora sembra quasi facile fare il ragionamento opposto.
Iniziare a pensare che siamo preparatissimi alla vita e che quindi qualsiasi cosa succeda siamo solo pronti a superare le sfide che ci vengono messe in mezzo ai piedi.

Sì, mi piacerebbe fosse così.
Ogni tanto ci penso.
Poi però qualcosa o qualcuno mi ricorda che di tutto quello che si può pensare, forse "non ce la faccio" è l'unica scelta plausibile.
E Dio solo sa quanto vorrei sbagliarmi.

Il mio anno è partito nel modo più sbagliato e non fa altro che peggiorare. Inevitabilmente e senza freno.
Com'è che si dice, "anno bisesto anno funesto"?
Ecco, forse questo è uno di quei tanti detti, tramandati da generazioni e generazioni, davvero affidabile.
Forse invece è solo una profezia che si auto avvera.
Forse semplicemente le cose vanno come devono andare.

Credo molto nel destino. Ormai lo sanno tutti.
Allora devo credere anche che ogni singolo giorno passato a pensare che non ce la sto facendo, sia in realtà la spinta che mi porterà a qualcosa di più grande, di più vero. Sarà, ma a me sembrano solo tante frasi fatte.
Tanti "passerà, vedrai" stipati negli angoli delle bocche della gente intorno a me che si riempie le fauci di questo inutile auto convincimento.

Certo che passerà.
Passa tutto. Il problema è quando ti passa sopra. Più volte. Più pesante di prima.
Ho il terrore di inaridirmi, come succede a tutti. 
Ho il terrore di guardarmi allo specchio e accorgermi di essere diventata una persona comune.
Una di quelle persone che passano la vita a vantarsi di essersi chiuse in loro stesse.

Io ho una voglia di vivere che la potrei vendere al chilogrammo, per questo trovo solo ragioni per morire dentro e fuori.
Questo inaspettato sole di Febbraio non fa altro che annientarmi sempre di più.
La sera torno a casa e mi rifugio dentro al letto, che non è nemmeno più un posto tanto sicuro.
I ricordi riaffiorano in ogni dove. E fanno male, ma sempre nello stesso posto. 

La testa mi scoppia e credo che, nel momento in cui crearono l'universo, avrebbero dovuto mettere un limit ai pensieri che possono essere formulati dalla mente umana.
Vorrei che non si potesse andare oltre i dieci pensieri al giorno.
Vorrei che svegliarsi la mattina comportasse solo svegliarsi, niente di più.
E vorrei che questo peso che grava sulle spalle di tutti noi non fosse altro che una zavorra di gattini e unicorni.

Mi piacerebbe uscire di casa come facevo due mesi fa, semplicemente uscendo.
Ora ho il terrore di mettere il muso fuori, perché sono spaventata e le persone spaventate diventano cattive.
Se c'è una cosa che so e che difendo sempre con tutta me stessa, è quella di non volermi mai giustificare per ciò che sento e di come questo avviene.
La sensibilità non è una colpa. Il menefreghismo lo è.

E poi mi piacerebbe ridere.
Come faccio in quei pochi momenti di lucidità.
La sera ogni tanto esco e per fortuna qualcuno dice qualcosa e quel qualcosa mi fa tirare indietro la testa e chiudere gli occhi a fessura. Quindi rido.
Ma poi torno a casa. E non rido più.

martedì 9 febbraio 2016

Febbraio.

La vita è diversa a Febbraio.
E' post apocalittica. E' vivere nonostante tutto.
Vivere senza un pezzo. Ma soprattutto, è vivere?
E' passato un mese e tre giorni dall'esplosione della bomba che ha ridotto in pezzi il mio equilibrio.
E mi sento un po' Will Smith che vaga in una città deserta, da solo, pronto a spaccare il cranio ad ogni zombie che si mette sul suo cammino.

A Roma continua ad esserci un Sole davvero poco invernale, ma va bene così.
Probabilmente è un regalo pronto a scaldarmi nonostante io senta un gran freddo. Dentro.
Non ci sono ripari, per certi temporali dell'anima.
Non ci sono ombrelli, tettoie, fessure dove ripararsi.
Ci sei solo tu, in mezzo ad un'autostrada di sensazioni, che ti bagni di pioggia acida e ti fai arrivare addosso qualsiasi saetta esistente.

Sono periodi incerti, questi.
E' come se la vita mi avesse iscritto ad un corso in palestra che non volevo frequentare.
Come se, di punto in bianco, qualcuno avesse deciso fosse arrivato il momento di aderire a qualche ora di autodifesa.
Ma io non voglio difendermi. O almeno, non da tutto.
Il mondo è già problematico di suo. Nasci con i canini pronti a squarciare qualsiasi lembo di pelle non ti permetta di arrivare dove devi. Nasci con le unghie in fuori, sempre tese pronte a graffiare ogni straniero.
Che senso ha doversi difendere da qualcosa che si ama?
E' contro natura, è antropologicamente sbagliato. E' l'annichilimento della ragione e dell'essenza umana.

E' per questo che provo rifiuto per la vita umana.
Perché niente trova il suo posto e quel poco che lo fa, si sgancia dalla sua postazione, un giorno, così, per caso, senza motivo, per andare alla ricerca di un'altra postazione senza la garanzia che possa essere più comoda, più confortante. Senza nessuna garanzia.
Non è più una questione di rischio, è immaturità.
E' paura.
E la paura, posso confermarlo, è una grossa e irrazionale stronzata.

Nella vita le cose che fanno paura sono tante, infinite.
E ancora non capisco perché non si possa decidere di mandarle a fanculo, così come il resto delle cose che non ci piacciono.
Il confine è talmente sottile, che avere paura non fa altro che renderlo spesso e lastricato di punte farinose che si sgretolano e ti sommergono.

Sento che stanno cambiando delle cose, così come lo avvertivo l'anno scorso.
Ma vorrei avere il potere di mantenere quello che è giusto, quello che mi fa stare bene.
Come se fosse una scelta solo mia.
Indipendente dal resto delle persone, delle cose, delle azioni, dei fatti, delle parole.
Vorrei tornare indietro, forse.
E vorrei solo andare avanti, forse.

Se mi chiedessero come sono arrivata qui, io non saprei cosa rispondere.
Ad oggi continuo a non sapere cosa ho fatto, quali passi ho mosso, quali sorrisi ho evitato, a quali risate ho dato sfogo per essere qui, dove sono ora, come sono ora.
Non lo so.
Mi manca un pezzo. Mi manca un lasso temporale di trentotto giorni.
Trentotto giorni consecutivi che ho vissuto non vivendo.

Ma qualcosa di buono ne è uscito fuori, anche se minimo.
Anche se fa male il doppio.
Anche se è poco.
Anche se non basta.
Anche se è tutto qui.
Anche se non posso farci niente.
Anche se adesso non so come me la caverò.
Anche se Febbraio è il mese delle piccole rivincite.
Anche se intorno a me vedo uno schifo che non sopporto.
Anche se l'orrore che provo non tira fuori niente di bello, nemmeno queste parole.
Anche se mi piacerebbe ricominciare.
Anche se pensandoci è solo peggio.
Anche se di tempo ancora ne deve passare.
Anche se di tempo, alla fine, non ne passa mai.