venerdì 29 aprile 2016

Un cucciolo in saldo.

Ultimamente sono quasi ossessionata dall'idea di prendere un altro cane.
Mi sento la Regina dell'Incoerenza se penso che a Novembre ho spergiurato di non volerne mai più in casa, ma mesi fa il dolore era troppo grande per pensare di dover affrontare tutto di nuovo; mi faceva sanguinare gli occhi.
Sento un vuoto gigantesco fra il petto e la bocca dello stomaco.
Più passano i giorni, più sento che mi manca un pezzo. 
E' che reputo la vita un po' vana se non si riesce nemmeno a prendersi la responsabilità di accudire un altro essere vivente, che sia questo un animale o meno. Che poi, in moltissimi casi, ci si prende cura di animali a due zampe che fanno più danni di quelli a quattro. Ma dettagli.

Mi sono accorta che ho tantissimo bisogno di amare.
Proprio in generale. Perché amare distrae.
Dal resto.
Da tutto.

Quando i miei decisero di esaudire il mio desiderio di prendere un cucciolo, io avevo circa 11 anni. Mi ricordo che una mattina andammo al canile - posto dove non voglio più mettere piede in vita mia - e con il cuore spaccato da tutti quei musi bellissimi e imploranti, ne scelsi uno in particolare.
Una cagnetta di un anno e qualcosa, se non sbaglio.
Non so perché in Italia, a Roma, nella mia vita, ci sia tutta questa disorganizzazione e questa voglia di mettere sempre i bastoni fra le ruote a tutti; e infatti quel giorno tornai a casa senza cane.
Perché al canile, al tempo, si preoccupavano di cazzate burocratiche piuttosto che di questi poveri cristi che marcivano nelle gabbie zozze e umide.

Ma comunque.

Mio padre è uno che quando decide di darti qualcosa, finché non ha trovato il modo per farlo, non si dà pace. E infatti qualche giorno dopo trovò un allevamento che ci indirizzò in un particolare negozio di animali che vendeva un cucciolo proveniente dai loro primi premi di bellezza canina eccetera eccetera. Non che a noi fregasse qualcosa di pedigree e simili, però vabbè.
Così, mi venne a prendere a scuola e mi portò nel negozio in questione.
Aprirono la gabbietta minuscola e ne uscì fuori questo cucciolino bianco, con le orecchie leggermente più scure e il naso rosa.
Fu chiaro da subito che sarei tornata a casa con Luna.
Che poi a casa mia ci è rimasta per quattordici anni. Mica due giorni.

In pratica era arrivata al negozio di animali, dall'allevamento, con suo fratello - che era nero - e non si sa perché nessuna l'aveva comprata. Cioè io lo so perché: stava aspettando me. E con il passare dei giorni il suo prezzo si era abbassato perché, a detta dei proprietari del negozio - che sono i veri cani di questa storia -  se un cane non si vende è perché non è poi così bello.
Era il mio cucciolo in saldo. 
Sì, a volte un cane è una responsabilità così grande che pensi di non farcela. E infatti è così che funziona l'amore. 
Amare è lavorare. Per questo la gente si stanca subito.
Luna aveva le zampine martoriate da escoriazioni di ogni genere perché non era mai uscita dalla gabbia dove l'avevano messa e aveva paura di qualsiasi posto chiuso e stretto; non entrava nemmeno in ascensore.

Non è stato facile, all'inizio.
Non è stato facile per niente. Abituare qualcuno a sentirsi al sicuro è forse la cosa più audace che un essere umano possa fare. E non parlo solo di cuccioli, chiaramente.
Anche se con gli animali è certamente più facile.
Sono stati quattordici anni di amore sconfinato. Di musi giganteschi poggiati sul letto la mattina, di zampate indelicatissime che arrivavano mentre mangiavi, di orecchie morbide da accarezzare mentre in TV mandavano un programma a caso.
Di questo parlo.
E credo di averne ancora bisogno.

Ma forse, senza forse, non è solo di un cucciolo che dovrei occuparmi.
Come tutte le cose belle, anche gli amori incondizionati finiscono e pure male, spesso e volentieri.
Ho visto il mio muso e tutto quel pelo sfiorire nel giro di due giorni, finché non è stato più possibile ignorare quello che sapevamo tutti da tempo.
E infatti, l'amore, ad un certo punto ti viene a presentare il conto e ti chiede di fare l'ultimo gesto tanto brutale quanto sensato.
Prendere il mio cane e accompagnarlo nel suo ultimo viaggio in macchina è stata la cosa più difficile che ho dovuto affrontare nella vita, perché ne ero consapevole dal primo minuto.
E fa schifo.

In certi momenti si è così soli che non bastano mille contatti sul telefono a farti sentire parte di qualcosa.
Ed io mi sento così anche adesso.
Alzare il telefono e comporre un numero a caso non mi basta più, anzi mi rattrista.
Ci vorrebbe così poco eppure pare che questo "poco" sia invece tantissimo.
Non so perché, non me lo spiego.
Ogni giorno è una battaglia, con la gente, con il mondo. Ed io sono stanca e non mi vergogno a dirlo.
Se penso che ancora di anni, presumibilmente, me ne restano parecchi, non so davvero dove trovare il coraggio per affrontare quello che si presenterà.
Io le forze per combattere ce le avrei pure, ma non le voglio usare.
Voglio che sia tutto il più naturale possibile e invece sembra che questa naturalezza sia andata a perdersi chissà dove, chissà come, chissà con chi.

Più il tempo passa, più mi rendo conto di avere paura di essere abbandonata.
E allora se ci penso, forse non è il caso di adottare un altro cane.
Perché inevitabilmente, presto o tardi mi abbandonerà anche lui.
Io non lo so che disegno c'è per me, ma fino ad ora non mi sta piacendo per niente.
Lo vorrei più colorato e più lineare.
Vorrei che fosse un quadro di Emilio Greco, pieno di minuscole e finissime linee che alla fine formano un ritratto preciso e pulito.
Invece adesso mi sembra di essere un Monet, che da lontano pare esattamente quello che vuole rappresentare, ma più ti avvicini, più ti accorgi che invece sono solo macchie e nemmeno tanto uniformi. Solo macchie.
E nient'altro.

sabato 23 aprile 2016

Ti dicono che sei speciale mentre guardano nel carrello delle offerte.

In questo grande supermercato dell'esistenza si fa la spesa giorno per giorno.
Forse la crisi economica nella quale, apparentemente, ci troviamo da anni ha influito anche sui rapporti umani.
Non per cadere in banalissimi cliché, ma quando ero piccola ricordo perfettamente che, andando a fare la spesa con mia mamma, riempivamo il carrello tantissimo, fino alla fine, fino a quando andava a finire che dovevo tenere le cose in mano perché non c'era più posto.
E quella stessa spesa ci durava un sacco di tempo.
Adesso è già tanto se non bisogna stare a comprare il latte tutti i giorni, a casa mia. E tra l'altro perché non lo beve nessuno.

Con l'andare avanti del tempo, il carrello è sempre stato un po' più vuoto e il prezzo sempre un po' più alto.
Mi rendo conto che non sia il paragone più romantico che esista, ma al liceo ho fatto Diritto ed Economia, quindi ogni tanto riesco ad essere fredda e calcolatrice su sfere che di freddo e calcolatore dovrebbero avere ben poco.
Mi sono accorta che i rapporti a due sono un po' come il carrello della spesa.
Se fossimo a scuola farei una bella fascia temporale, di quelle che si facevano alle elementari, quelle che andavano dall'età della pietra, fino ai giorni nostri.
La mia fascia temporale inizierebbe dai primi anni Novanta, fino ad arrivare a questi miseri anni Duemila.

I rapporti a due si svuotano come il carrello in tempo di crisi.
Io negli anni Novanta avevo pochissimi anni, in realtà. Però alcune cose me le ricordo.
Mi ricordo che i miei zii stavano insieme da tanto, ma non potevano sposarsi perché mia zia doveva ancora divorziare dal suo ex marito.
Mi ricordo che i miei stavano ancora insieme e mio padre portava le stecche di sigarette a mia madre e le dava un bacio sulla fronte appena rientrato a casa. E a me una volta un peluche a forma di gatto che avevo visto qualche giorno prima al centro commerciale.
Negli anni Novanta, mi ricordo, i miei nonni materni erano ancora giovani e mia nonna paterna mi parlava sempre di suo marito, padre di mio padre, che purtroppo non ho mai conosciuto.

Gli anni passano e arriva il Duemila.
Allora i miei zii sono in fase di rottura ed è tutto un gran casino, i miei si sono rotti da anni invece.
Ed i miei nonni, da tre, sono diventati uno.
Nel mio carrello adesso c'è davvero poco, ma il prezzo è altissimo.
La vita la vedo come una grossa gigantesca vetrina ambulante, dove nel mezzo ci sei sempre tu.
Manichino insostituibile, come se il negozio che ci vendesse non sia in grado di esporre altro.
E non perché siamo la merce più costosa o più pregiata, semplicemente perché è l'unica che ha.

Sento che ogni tanto qualcuno ci entra, in questo negozio.
Ti guarda, ti gira, ti rigira, ti posiziona addosso per sapere come staresti nell'eventualità qualcuno ti portasse fuori e poi ti posa. Oppure ti prova. E poi ti posa.
O ti butta via.
O spesso e volentieri ti rovina in qualche modo.
Magari ti cade addosso la cenere della sigaretta o ti stropiccia in malo modo o ti tira e ti strappa e non ti ricuce più.
Ecco, è così che mi sento.

Ultimamente mi sono sentita dire un sacco di belle cose. Anche da persone che non credevo potessero pensarle - vabbè io non lo credo mai, ma questa è un'altra storia - .
Quando meno te lo aspetti entra qualcuno in negozio, si vede che la vetrina è davvero allestita bene, perché ti senti irresistibile. Ed io quando mi sento irresistibile ho paura, perché è quello il momento esatto in cui le persone invece, guarda un po', sono un po' sulle spese e devono fare economia per il mese prossimo e per il prossimo vestito e per la prossima persona, soprattutto.

Insomma all'inizio nessuno guarda il prezzo.
Anche io lo faccio, nei negozi e con le persone. Arrivo, guardo, compro. Poi quando arrivo a casa, nella comodità della mia camera, mi provo tutto e spesso bestemmio perché non mi sta bene nulla.
Sarebbe più facile fare tutto in negozio, mi dico sempre. Ma non imparerò mai, mi sa.
La gente fa quello che io faccio con i vestiti.
Ti guarda, ti vuole, ti tiene un po' nella busta, ti prova, si accorge che forse costavi troppo per quello che volevano spendere e quindi tanti saluti. E nessun reso.

Ecco, la novità è che questa roba qui inizia a darmi un po' fastidio.
Per un semplice fatto: se una maglietta mi sta perfettamente e sembra cucitami addosso, io me la tengo. Ma me la tengo per anni, anche per sempre. Finché non è lisa.
Perché mi sta bene e mi valorizza.
Non mi sento di sminuire qualcuno se affermo di fare la stessa cosa con gli esser umani.
Ho conosciuto anime che nella mia ci stavano a pennello, ho conosciuto anime con le quali mi sono fusa nemmeno fossimo in mezzo alla lava di un vulcano in piena eruzione.
E le ho tenute. Tutte. Anche quando sono tornate nella loro vetrina, pronte per essere scelte da qualcun altro.

Quello che voglio dire è che se veniamo considerati più di un semplice pacchetto di gomme esposto davanti alle casse, perché veniamo invece trattati come il dentifricio in offerta 2x1 al modico prezzo di 1,50 euro?!
Parlando seriamente, gli ultimi mesi mi sono serviti a capire ancora un po' chi sono.
Sì, perché anche se mi frequento da 23 anni, a volte scopro ancora novità su di me. E questo forse è un bene. 
Negli ultimi mesi ho acquisito più sicurezza su certe cose e mi sono sentita diversa. Cresciuta, in qualche modo.
Sarà forse perché ho finalmente vissuto parte delle esperienze che mi mancavano per completare un quadro già avviato.
Bene.

Probabilmente, fra le mie nuove consapevolezze, vi è anche quella di sentirmi un pezzo unico.
Come i coatti che nel 2007 scrivevano sulle loro foto di essere LIMITED EDITION. Ecco, un po' mi ci rivedo.
Forse devo aspettare di incontrare un collezionista, uno che di cose belle e rare ne capisce.
Uno che mi tiene con se e non mi vende al miglior offerente.
Uno che mi espone nella sua privatissima vetrinetta di casa, dove troverò il mio posto.
Lo so, fa molto quindicenne in crisi, ma se sono così speciale perché è tanto difficile affezionarsi a  me e custodirmi gelosamente?

mercoledì 20 aprile 2016

La notte, il profumo e quelle cose lì.

Stanotte sotto casa mia c'era profumo d'estate.
Ma non un'estate qualsiasi, no. C'era profumo di mare.
A Roma. In piena città.
Era il profumo di certe serate passate al mare.
O forse non c'era, ma io lo sentivo perché ci stavo pensando.
Ogni tanto arrivano ricordi come mitragliate e stanotte mi veniva da pensare all'Abruzzo.
Ci ho passato così tante estati, ma così tante, che mi avevano nauseato.
Ci ho messo un po' a capire che mi sarebbe mancato tutto quello che avevo lì. Circa qualche anno.
Circa il tempo di rendermi conto che, come tutte le cose che diamo per scontate, una volta arrivati sull'orlo del perderle, capiamo irrimediabilmente che quelle cose sono aria fresca, vita, essenziali per la nostra sopravvivenza. Già.
È un bel classicone notare qualcosa, dargli importanza, proprio mentre quel qualcosa si allontana.
Ad ogni modo certi ricordi, scolpiti nella mente come Mosè nella pietra da Michelangelo, riaffiorano quando meno te lo aspetti.
Quando stai tornando a casa da una serata che ti è piaciuta, durante la quale hai riso, ti sei anche un po' emozionata e magari anche un po' commossa (ma nessuno lo sa).
E non te lo aspetti di certo che dopo aver parcheggiato, chiuso la macchina, preso le chiavi di casa, arrivi un'ondata di profumo di certe serate al mare.
Non te lo aspetti perché sei in città e perché l'Abruzzo è lontano e perché lontano è tutto il resto.
Non te lo aspetti, ma godi.
Ricordo perfettamente le mie estati lì. Non ho mai sopportato nessuno, ovviamente.
Ma nessuno sopportava me, quindi mi sentivo un po' giustificata.
Sì, in spiaggia avevo conosciuto qualcuno, qualche mentecatto che prendeva in affitto la casa da maggio a settembre e per questo motivo si sentiva il re del Lido.
Mia nonna aveva scelto quella casa perché era appiccicata al mare, così tanto che da piccola uscivo direttamente in costume (quando avevo il fisico ZAN ZAN).
Ed in effetti il mare era proprio attaccato. Bastava fare un vicoletto a piedi, in tutto forse 10 minuti di camminata e si arrivava in spiaggia.
Non mi sopportavano, gli altri bambini, perché ero cittadina.
Non è uno scherzo. Non mi sopportavano per questo.
Non me ne vogliano gli abitanti di paesini e varie, ma purtroppo c'è sempre questa ignorante convinzione che le persone che vivono in città siano in qualche modo diverse.
Cioè, per carità, lo sono, lo siamo, ma a cinque, sei, sette, otto, nove anni e via dicendo l'unica cosa che dovrebbe interessare ai bambini è chi conta, chi si nasconde e chi fa tana libera tutti.
Insomma, con quelli del Lido le cose non andavano.
E vabbè, pazienza, mi dicevo.
Così, estate dopo estate, trascinavo insieme a me qualche altro cittadino.
Qualche amico sventurato che avrebbe passato l'estate a Roma se non fosse venuto con me al mare e, alla fine, settimane che sembravano noiosissime, diventavano meravigliose e si tornava a casa con un monte di cose da raccontare.
Bello. Davvero. A pensarci era proprio bello.
Daniele è stato il mio migliore amico per anni. Un rapporto più che fraterno. Così unico e speciale che ovviamente non è durato nel tempo e ad un certo punto le nostre strade si sono separate, senza nemmeno salutarci. Mi è sempre dispiaciuto un po'.
Il mio primo tatuaggio in assoluto l'ho fatto con e per lui.
Un diamante sul polso destro. Anche un po' bruttino in realtà, ma per me resta bellissimo.
Al tempo di tatuaggi ne capivo poco e mi sembrava un'opera d'arte. Adesso che sono passati quasi dieci anni lo guardo e lo vedo comunque un'opera d'arte, anche se è parecchio distante dal concetto stesso.
Ma comunque.
Daniele partiva con me, per l'Abruzzo. O meglio, il primo anno avevamo tentato questa convivenza forzata davvero poco sicuri che potesse funzionare. L'affetto c'era, ma non si sa mai. (Sì, sul viaggiare insieme ad altre persone sono rompicoglioni - e manco poco).
Avevamo passato la settimana più bella della nostra vita. Accoppiata vincente anche in trasferta, io e lui. E questo ci servì tantissimo, perché avevamo un nuovo posto dove volerci bene. E non è poco.
Un giorno mi salvò anche la vita, lì al mare.
Un tizio ubriaco e fatto di qualsiasi droga esistente stava per mettermi sotto con la macchina, mi ha sfiorato di mezzo centimetro e se non fosse stato per Daniele che con prontezza mi ha tirato verso di lui, a quest'ora, probabilmente non starei scrivendo questo nostalgico post.
Ma andiamo pure avanti.
La sera dopo cena uscivamo.
Non sapevamo mai dove andare e cosa fare e al tempo eravamo così piccoli che la patente era un miraggio lontanissimo purtroppo.
Le alternative erano poche: cinema, molo, centro città, pontile, rotonda, spiaggia.
E alla fine si faceva sempre tutto quanto. Perché erano tre cose in croce e perché quando sei tanto giovane nemmeno ti interessa più di tanto.
Ad un certo punto, chissà come mai, ci ritrovavamo davanti al mare, di notte, con la sabbia freddissima sotto i piedi e qualcuno che faceva porcherie qualche fila di ombrelloni dietro di noi.
Non abbiamo mai rimorchiato al mare, non so perché.
Forse perché ci vedevano sempre insieme e pensavano che fossimo una coppia. Ora che ci penso è probabile. Ma vabbè, tanto io scappavo in Abruzzo per rifugiarmi in un posto sicuro, ché tanto a Roma c'era sempre qualche stronzo che mi spezzava il cuore.
Per le successive quattro estati, infatti, non si è parlato d'altro. E lo stronzo in questione era sempre lo stesso. Ma di nomi non ne faccio, ché se un giorno divento famosa e mi associano a quello lì perdo di credibilità.
Dopo aver parlato per ore e ore e ore e ore in spiaggia, a me veniva sempre sonno. Sempre.
Allora mi strusciavo un po' sulla sua spalla e gli dicevo "Dani? Mi porti a casa che ho sonno?" e tanto lo sapeva anche lui che se non erano le cinque di mattina non andavamo a dormire.
Tornavamo verso casa, sempre percorrendo quel vialetto, faceva sempre fresco. Così tanto da mettermi una felpina (che arrivava sempre in prestito da quel Sant'uomo, perché io previdente mai).
Aprivamo il cancello con un magheggio stupido, anche se avevamo le chiavi. Non so perché, forse ci divertiva sentirci un po' Diabolik ed Eva Kant. Non saprei davvero.
Stessa cosa succedeva per entrare nella scala del palazzo: invece che aprire il portone come ogni cristiano sulla faccia della terra, noi ci arrampicavamo su un cornicione alto almeno due metri da terra ed entravamo da una finestra che affacciava all'interno della scala, dove c'era l'ascensore.
Bah, mai capita sta cosa qui. Oggi il pensiero di spaccarmi la testa cadendo sarebbe più forte del brivido cretino di stare attenti a non perdere l'equilibrio.
Questa storia dell'arrampicarsi andò avanti fino a che non stavamo quasi per compiere la maggiore età, quindi eravamo proprio noi ad essere irrecuperabili credo.
Ad ogni modo, una volta rientrati, partiva la gara a chi faceva più rumore. Non volutamente, chiaro.
Ma succede così quando tenti di fare silenzio no?
Cade di tutto e perfino respirare sembra la cosa più rumorosa del mondo.
Ci ritiravamo in camera di corsa per poter ridere liberamente.
Daniele prima di dormire andava in balcone a fumare mezzo pacchetto di sigarette ed io lo seguivo.
Gli dicevo che avevo freddo e lui mi diceva "finisco questa e andiamo", ma tanto poi se ne fumava sempre altre cinque o sei.
Poi entravamo nel letto e nessuno dei due si addormentava prima di un'ora. Parlavamo di tutto, io e lui. Ma ammetto che forse al tempo ero un po' monotematica.
Cercavo solo una maniera per capire dove stessi sbagliando con quello lì di cui non posso fare il nome.
Insomma come adesso alla fine, ma almeno negli anni il soggetto è cambiato.
E il giorno dopo ricominciava tutto.
Il mare, i libri, io e Daniele, il pranzo, la doccia rigenerante, la pennica di ore ed ore, la cena e tutto il resto.
Arrivava l'ultimo giorno di vacanza così rapidamente che sembrava fossero passati dieci minuti dal nostro arrivo. E anche se snobbavamo qualsiasi cosa avessimo intorno, tornavamo sempre a casa con qualcosa da raccontare. E qualcuno ci invidiava pure.
Le mie amiche, per prime, perché Daniele è sempre stato bello come il sole. E mi dicevano "ma davvero dormite nello stesso letto? E non fate niente?" ed io con aria di superiorità e un po' di elitarismo rispondevo "Io e lui? Ma scherzate?! Siamo come fratelli" e ci aggiungevo una faccetta fra lo snob e il fastidioso. Perché quello che c'era fra me e lui lo capivamo solo noi.
In tutti gli anni della nostra amicizia non c'è stato nemmeno un bacio.
O forse sì, a stampo e per scherzo. Al solo pensiero ci veniva da vomitare. Eravamo fratelli noi, eh!
Ecco, c'era questo profumo qui stanotte sotto casa mia.
Profumo di notti d'estate, profumo di sigarette interminabili sul balcone, profumo di paesani che ti detestano, profumo di passeggiate fra la gente, profumo di tutto quello che non ho più.
Perché le cose belle finiscono, esattamente come quelle brutte. Ma quelle belle un po' prima.
E non ti accorgi mai in tempo quando è il momento di godersele.

domenica 17 aprile 2016

Domenica diciassette Aprile ore diciannove e qualcosa.

Il 17 Aprile dell'anno scorso era probabilmente un mercoledì.
Tornavo a casa mia ed ero felice.
Guidavo, ma non faceva ancora così caldo. Non come oggi. Non come in questo Aprile.
Ricordo che avevo la musica alta, come sempre.
Che era l'ora di pranzo e che sorridevo.
Ricordo anche che c'era traffico, sull'Olimpica. E che non mi interessava.
Che non vedevo l'ora di vedere cosa sarebbe successo il giorno dopo.
Ma la cosa che ricordo più di tutte è che quel giorno ho capito, ho accettato ed ho ammesso di essere innamorata. Ma mica come ci si innamora di un paio di scarpe eh, proprio innamorata perdutamente.
Innamorata senza possibilità di recupero.
Innamorata talmente tanto che la vita mi faceva pure meno schifo.
Ricordo soprattutto che non ho avuto paura, che mi sono arresa all'idea di aver il cervello completamente mangiato da questa larva che è l'amore. E il cuore così gonfio che mi sarebbe servito un altro petto per contenerlo tutto senza il rischio che fuoriuscisse da un momento all'altro.
Mi ricordo che avevo voglia di fare, di scoprire, di vedere cosa che fino al giorno prima non avevo mai fatto mie e non avevo mai considerato neppure che potessero esserlo.
E mi ricordo che quando sono arrivata a casa, in ascensore, allo specchio, mi sono guardata e per la prima volta in tutta la vita ho pensato che non fossi una persona così pessima e che finalmente qualcuno l'aveva notato.
Mi ricordo di essermi emozionata per questo pensiero e l'idea di non fare così schifo mi aveva messo di buonumore. Sentivo di essere libera, di poter finalmente lasciarmi andare, sentivo che era arrivato il momento di concedermi un po' di tranquillità, senza che questa sfociasse in ansie e paure.
Scrivevo questo, il 17 Aprile 2015: http://allegrifatalismidiromaest.blogspot.it/2015/04/bury-my-bones-in-here.html
Ricordo che le parole erano uscite così spontanee che non avevo dovuto nemmeno rileggere quello che avevo tirato fuori, perché era perfetto così. Proprio come tutto il resto.
E ricordo, oggi, che infatti resta tutto solamente un ricordo.
Un tassello nel passato.
Un Aprile che sembra lontano dieci o forse quindici anni.
Ed era tutto così bello, nonostante fosse primavera, che non ci avrei mai creduto se mi avessero detto che a distanza di qualche mese avrei passato le notti a ricucirmi i pezzi persi durante la giornata e a disperarmi. Mentre tu dormivi. Mentre tu andavi avanti. Mentre tu già non ci pensavi più.
Non ci avrei creduto, perché pensavo fosse arrivato per il momento di godermi i frutti di ogni sofferenza passata e che questo durasse ancora un po'. Ancora un altro po'. Ancora un po' di più. Di più e basta.
Per quest'anno ormai è tardi, il 17 Aprile è quasi finito, ma vorrei ne arrivasse un altro degno di quello passato.
Perché Aprile passa, la Primavera passa, Tu passi, ma Io resto qui. 
E non voglio restarci da sola.

giovedì 14 aprile 2016

Di bagliori e lacrime fresche.

Ho appena fatto una cosa per qualcuno.
Una cosa non richiesta.
Una cosa spontanea.
Mi viene un po' da piangere, perché credevo non ci sarei più riuscita.
E piango di gioia nello scoprire che invece sì, ci riesco e sono sempre io.

A Gennaio ho sentito il mio cuore rompersi così forte e così male che ero convinta potessi morire da un momento all'altro, sul serio.
Nella mia vita posso scandire perfettamente almeno tre esperienze in cui ho sentito di star per cedere; ed intendo nel vero senso della parola.
Una volta ad Agosto di un paio di anni fa, passando la notte più brutta della mia vita, fra atroci dolori inspiegabili.
Un'altra volta, appunto, all'inizio di questo fantastico anno di merda.
E l'ultima la notte del 27 Febbraio scorso.
Me li ricordo questi momenti perché sono stati quelli in cui ho iniziato a fare un mea culpa lungo ore ed ore, dicendomi che se davvero stavo per morire l'avrei presa peggio di quanto mai potessi aspettarmi, perché ho ancora tantissimo da dare. 
Non da fare, quello no. Non mi interessa.
Mi interessa quello che posso dare ancora, non a tutti, ma a chi lo merita.
Voglio scegliere nel mucchio le anime più tormentate e avvicinarle, come succede sempre a me, alla crocerossina del cazzo che sono. Questo so fare, ma ancora devo capire se sia un pregio o meno.

Da mesi ero convinta di non poter più sentire in un certo modo.
Non ho più sentito la morsa allo stomaco tipica di chi vive una forte emozione.
Non ho più avvertito il tremolio alle gambe davanti a qualcosa o qualcuno che sapesse mandarmi in confusione così tanto.
Ma nonostante questo ho scelto consapevolmente di alzarmi e camminare.
Non importava la meta. Camminare e basta. Perché era l'unica cosa che potessi fare.
I giorni passano e ad un certo punto ti accorgi che alcune cose, quelle che credevi impossibili, alla fine succedono lo stesso.
Dopo un lutto, una rottura, facciamo sempre tutti lo stesso errore di ripeterci a mente che non ce la faremo mai, che non ci rialzeremo più. Forse è vero. Forse rimaniamo sempre un po' azzoppati e malconci dopo queste disgrazie, ma finché siamo in vita qualcosa ci spingerà continuamente e per forza a risalire in superficie. Anche quando non si vuole. Ed io non volevo e forse non vorrei nemmeno adesso. Ma tant'è...

Fra le mie cose impossibili c'era sicuramente quella di non volersi più perdere.
In qualcuno, in qualcosa, per strada.
O meglio, la mia era paura. La paura di non sapersi perdere in qualcuno.
La paura di non concedere più spazio a nessuno.

Oggi so che non è così ed è bastato davvero pochissimo. E' bastato fare qualcosa, qualcosa che non fosse per me e che fosse spontaneo.
Si pensa sempre che certe azioni siano fatte solo ed esclusivamente per compiacere gli altri. Non è vero.
Tutto quello che facciamo è soltanto il riflesso del nostro stesso compiacimento, in relazione a quello di un'altra persona. Ed è una cosa bella, anche se egoista.
Per questo ora piango.
Perché ho capito che questo gesto spontaneo l'ho fatto per me.
Perché avevo bisogno di sentirmi ancora quella che sono sempre stata.
Avevo bisogno che il cuore mi scoppiasse un po' dentro al petto, mentre il cervello ripeteva che sono una stupida.

Ma succede questo mentre si fa del bene.

martedì 12 aprile 2016

Una splendida giornata di merda.

Si muore un po' tutti i giorni.
Ci si trascina l'anima tormentata dalla mattina alla sera, ovunque si va.
È come quando Peter Pan cercava di cucirsi l'ombra addosso, per evitare che scappasse via. A volte, invece, sembra che ci incolliamo l'angoscia alla testa, per non farla passare.
Non so da cosa dipenda, non me lo sono mai chiesto.
Forse la paura di lasciare un'angoscia certa, per una che invece non lo è.
Questa è sempre stata la mia teoria:
Ci sono dolori che ad un certo punto non sono più solo dolori. Sono porti sicuri.
Sono rifugi. Sono garanzie.
Talvolta ci consola quasi sapere di avere un dolore che custodiamo nel profondo.
Si soffre sempre per le stesse cose.
Come se avere quel dolore ti giustificasse dall'averne un altro.
Come se avere quel dolore ti salvaguardasse dall'averne un altro.
Sono dolori calcificati.
Sì, li chiamerei così.
Come un fossile intrappolato nella pietra, così il dolore intrappolato nel cuore.
Per questo costa fatica fare un salto nel vuoto. O fare un salto in Qualcuno che magari vuoto non è.
Perché esponendoci, nello slancio, potremmo inevitabilmente cadere e sbattere la faccia e frantumarci al suolo e spaccarci tutte le ossa e spargere il cervello sul cemento e i denti tutti intorno a formare una meravigliosa cornice di interiora umane.
E soffrire. E quindi ammalarci di un nuovo dolore.
L'essere umano non è fatto per sopportare troppi dolori tutti insieme.
Ci diciamo che siamo forti, ma la realtà è che non riusciamo ad abbandonare le vecchie sofferenze perché sono ormai parte di noi. Sembra quasi di mancargli di rispetto, al dolore.
Andare avanti e lasciarselo alle spalle vorrebbe dire lasciar andare ciò che si è custodito gelosamente fino a quel momento e soprattutto vorrebbe dire che siamo pronti a soffrire di nuovo.
E da penosi esseri umani quali siamo, questo, è inaccettabile.

Ted Mosby diceva che non succede mai niente di buono dopo le due di notte.
Posso assicurare che anche prima si riescono a fare un sacco di danni.
Non lo so perché certe giornate sono programmate per minare la nostra serenità, il nostro equilibrio mentale.
Forse in quel momento c'è Dio che probabilmente si annoia e vuole giocare con te.
Forse è lì per dire che è arrivato il momento di metterti alla prova e testare la tua fede in lui, invitandoti a bestemmiare per controllare quanto ci metti prima di crollare.
Non lo so.
Ogni tanto mi capita di vaneggiare.
Ci sono persone che andrebbero abbracciate.
Parlo di quelle persone che il dolore ce l'hanno scolpito negli occhi, nella fronte.
Quelli che ti guardano sempre un po' aggrottati. Quelli che ti sorridono di rado.
Fa male sorridere.
Fa male perché spesso nel momento più bello di una giornata, con l'allargarsi degli angoli della bocca, si avverte quel bruciore allo stomaco tipico di chi sta per rigettare.
Perché un sorriso ricorda tanti sorrisi e tanti sorrisi ricordano qualcosa che non c'è più o forse non c'è mai stato.

Nella vita si può avere la fortuna di conoscere qualcuno.
E per qualcuno intendo qualcuno che ha il potere di cambiarti la giornata, in meglio o in peggio.
Spesso succede così per caso che quando poi ci pensi ti sembra ridicolo.
C'è quel famoso detto che recita più o meno così "riconoscerai il valore delle cose, solo una volta averle perse". Sì, probabilmente è vero.
Ma io certe cose e certe persone non ho mai voluto perderle.
Mi capita di pensare che ci si incontra sempre per un motivo.
Con chiunque, intendo.
Con qualcuno ti trovi a spartire l'anima, con altri probabilmente a dilaniartela.

Sentirsi sempre regola e mai eccezione fa schifo.
Ho la sensazione che sia tutto come un copione già scritto, già recitato.
Ci si incontra, si entra nella vita l'uno dell'altro e ad un certo punto ci si saluta. Così.
Anche quando non si vuole.
La vita è una passeggiata solitaria in compagnia di qualcun altro. Questa è la verità.
Me la immagino come una spiaggia immensa, la vita.
Con una battigia confortevolissima, il mare un po' scuro e intorno tanti palazzoni alti e detriti ovunque.
Insomma tipo Ostia.
Scherzi a parte. La immagino così.
Immagino un cammino in riva al mare, come se la vita fosse un continuo running.
Ed ogni tanto qualcuno si avvicina e fa cinquanta metri di corsa con te, poi si ferma per prendere fiato perché forse si sta andando troppo veloci. Ma poi non ti recupera più. E quindi ti ritrovi a correre da solo.
Mi chiedo solo quando arriverà anche per il me il momento di fermarmi un attimo per riprendere fiato, ché sento i polmoni ed i reni cedere.

mercoledì 6 aprile 2016

Ti chiamerò un giorno d'estate o magari mai più.

Oggi sono tre mesi di lacerante dolore giornaliero.
Qualcuno mi ha detto che devo smetterla di contare i giorni, ché tanto non serve a niente. È vero, ma mi viene spontaneo.
Oggi è il sei del mese, come quel giorno.
Ed è anche mercoledì, proprio come quel giorno.
Ci si chiede sempre perché a volte la vita prenda quella piega un po' amara; io invece mi sono sempre chiesta quando prenderà quella meno amara o quella addirittura per niente amara.
Ma forse devo smetterla.

Ieri sera un amico mi ha detto che il segreto è pensare che qualunque cosa finirà e finirà male. Ho risposto che non ce la faccio a pensarla così, seppur il mio animo da Calimero me lo suggerisca sempre.
"Forse perché ancora non hai sofferto abbastanza"
"No, perché credere che esista un lieto fine, nel bene o nel male, è l'unica cosa che mi tiene un po' in vita" - ho risposto.
Sembrano quelle conversazioni da libro cuore, me ne rendo conto, ma è la verità.
Ricordo perfettamente che a quattordici anni scrissi "le mie speranze sono morte ed io con esse".
In parte è ancora vero.
Ma ce ne sta una, di speranza, solo una che ancora non si decide a sloggiare.
Ed è quella che infatti mi fa svegliare la mattina, anche quando non voglio.
Il che, forse, è una fortuna.

I mesi passano.
Le stagioni cambiano.
Io stessa cambio e tutto ciò che ho intorno cambia.
Passano i giorni.
Passano le ore.
Passano i pensieri (quando sono fortunata)
E passerai anche tu, come tutti gli altri.
O almeno questo è quello che mi auguro.

Ho sempre pensato che l'offesa più grande che si possa attribuire ad una persona, sia proprio quella di paragonarla agli altri. Al resto del mondo. Al resto dello schifo.
Deludere qualcuno è la cosa più frustrante e triste del mondo, perché è irrecuperabile.
Non rinnego mai nulla, ma spesso mi domando se avessi potuto evitare certe cose.
Mi dico che forse se fossi stata più attenta, certi dolori, me li sarei risparmiati.
Poi scuoto la testa e penso che non voglio sentirmi stupida per aver creduto che nella vita ci fosse qualcosa di bello anche per me.

Ogni tanto mi voglio così bene che penso di meritare il meglio.
Penso che tutta questa "palestra" di singhiozzi serva solo a farmi capire che non posso sprecarmi appresso a chi non sostiene quello che sono, a chi non ne è capace, intendo.
A volte penso che sono così tante cose insieme che ci sarà bisogno di aspettare a lungo prima di trovare qualcuno che si prenda la responsabilità di accoglierle tutte e farle sue, come io faccio con tutto quello che sono gli altri.
L'unica pecca di questi pensieri, è che poi passano e lasciano solo un vuoto incolmabile.
Perché la realtà dei fatti è un'altra. E fa male come sale sulle ferite.
La verità è che ci sentiamo sempre speciali, ma nessuno ci dà la garanzia di esserlo davvero. Forse perché non è così o forse perché non lo è nessuno o forse ancora perché lo sono tutti a modo loro. E questo annichilisce il resto.

Ci raccontiamo un sacco di favole, sempre.
E anche un sacco di bugie.
La più grande è quando fingiamo che non faccia poi così male, ma sotto sotto (e nemmeno tanto) fa malissimo e lo sappiamo bene. E lo sappiamo ogni volta.

Un giorno arriva qualcuno, nella tua vita.
Ti racconta un sacco di cose belle.
Ti fa fare il giro del mondo solo tenendoti la mano durante la notte.
Ti regala battiti accelerati solo sorridendoti.
Ti fa ridere così forte che i migliori temporali rabbrividiscono.
Ti fa emozionare e volare e volere e godere così tanto che ti chiedi davvero dove sia stata tutta quella vita fino a quel momento.
Sì, perché la vita è quella eh. Non raccontiamoci altre bugie.
La vita è quella cosa lì, quella che succede al bar davanti ad un cappuccino che ormai è diventato freddo perché di parlare non si finisce più.
La vita è quella che succede quando ti addormenti addosso a qualcuno, mentre c'è la TV accesa e non hai voglia di arrivare fino al letto per dormire, perché perderesti quella posizione perfetta, quel cantuccio stupendo, quel battito non tuo così vicino all'orecchio che, alla fine, diventa una cosa sola con te stesso.
La vita è quella robaccia là.
Quella che ci piace tanto fare i duri e prenderci in giro e dirci che tanto a noi quelle cose non servono, perché siamo grandi, perché siamo indipendenti, perché da soli stiamo bene.

Poi, ad un certo punto, la stessa persona che ti raccontava cose belle tira fuori un coltello.
E inizia a smucinare dentro di te con la lama affilatissima.
Passa al setaccio ogni organo, non se ne lascia scappare nemmeno uno.
Poi sale su, passa per lo stomaco, poi ancora più su, fino ai polmoni e finalmente si ferma nel cuore.
Dritto nel cuore.
Ti apre in due, ti spacca a metà.
E tu sei lì, con la faccia un po' incredula, con l'espressione di chi non aveva capito niente.
E dici "ma la mia favola non finiva così, cosa sta succedendo?!"
E lì, la vita, il coltello e il carnefice, ti insegnano che le favole non esistono e se esistono non finiscono come pensavi.

Non so se tutto questo è normale.
Ormai penso di sì.
Ma mi fa schifo pensare di vivere un'esistenza nella disillusione più totale.
Mi fa schifo perché non penso di meritarmelo.
Come nessuno, probabilmente.

Sento di fare una fatica incredibile per farmi conoscere, per far capire al resto del mondo chi sono.
E la cosa peggiore è che, nonostante lo sforzo sovraumano, nessuno davvero capisca o voglia farlo.
Mi chiedo perché si è così spaventati dagli altri.
A me la storia del meccanismo di difesa per non soffrire ha anche un po' rotto le palle eh!

Ieri ho fatto l'ennesimo dolce, ma è venuto male.
L'ultima volta l'avevo fatto per una persona che credevo speciale, forse per questo stavolta era immangiabile. Non ci ho messo cuore.
Si cucina sempre pensando a qualcuno, dicono, altrimenti stai solo preparando da mangiare.
Ecco, questo intendo.
Mi serve questa speranza qui, in generale.

Sono una persona che non pretende nulla, mai. Forse è questo che mi frega.
Non chiedo mai niente, perché se la gente vuole darti qualcosa deve farlo di sua spontanea volontà.
Questa è la regola.
Non ho mai elemosinato attenzioni, mi sono sempre seduta in un angolo ad aspettare che arrivasse tutto quello che doveva arrivare, con molta calma o semplicemente con il suo tempo.
Non è facile essere pazienti, ma ti evita di fiondarti fra le braccia del primo imbecille che finge un sorriso.
Anche quando non ce la fai più. Soprattutto quando non ce la fai più.

Ho capito che sono pronta a fare un passo in avanti, ma non senza reggermi a qualche cornicione, perché in ogni caso la prudenza non è mai troppa.
L'ho capito perché indietro non si torna mai davvero e quando lo si fa non succede niente di buono.
Mi sta bene guardare avanti, ma non vorrei farlo da sola.
Perché, come dice Alexander Supertramp, la felicità è vera solo se condivisa.
E, nonostante Into The Wild non mi sia mai piaciuto, quella frase racchiude un'esistenza intera.

Vorrei che l'estate mi sorprendesse, così da rivalutarla.
Vorrei arrivasse qualcosa di inaspettato.

Ma alla fine, stupida io, che come sempre, mi aspetto qualcosa di diverso.

sabato 2 aprile 2016

Aprile.

Aprile non bussa, arriva e non chiede permesso. Un po' come tutte le cose.
La prepotenza mi lascia sempre interdetta, qualsiasi essa sia.
A Roma si respira un'aria diversa, le giornate si sono allungate e ho già visto qualcuna con le cosce di fuori.
Sembra che la gente aspetti la Primavera per sbocciare, come i fiori. E' curiosa questa cosa, a me capita sempre di sentirmi marcire invece.

Certe volte mi sento fuori dal mondo, in senso letterale.
Mi sento come se mi avessero messo in una capsula, ad un certo punto della mia vita, e mi avessero poi liberata di nuovo in una terra nuova e diversa. Forse fa parte della crescita accorgersi che le cose non sono esattamente come ce le ricordavamo quando avevamo quella mente innocente da bambini.
Ogni tanto qualcuno viene da me e mi racconta qualcosa, magari qualcosa di bello ed io ho sempre la faccia un po' incredula e sospettosa, come se da un momento all'altro arrivasse inevitabilmente il punto in cui quella cosa bellissima si trasforma in una tragedia greca senza pari.

Mi trovo sempre un po' in difficoltà quando la gente viene da me e confidarsi.
Sì, perché non so mai fino a che punto la mia percezione delle cose sia reale o meno.
Oggi è sabato, le temperature si sono alzate, non piove da tempo e tutto lascia presagire che le cose stiano andando avanti senza controllo alcuno, alla deriva più totale.
Ci si sente sempre in guerra, quando ci si sveglia al mio posto.

Vorrei riempire le giornate con qualcosa che mi appaghi, che non mi faccia sentire il peso di tutto il resto, che mi rinfranchi anche nella stanchezza, mentale o fisica che sia.
Ma ho paura che non esista ancora quel qualcosa capace di distogliermi dai mille pensieri che la mente riesce a partorire nei momenti meno indicati.
Mi capita di uscire la sera e notare cose che si insinuano prima nella mia testa, poi fra le costole e infine si posizionano sotto le unghie e restano lì, finché non torno a casa.
Sono come piccole schegge invisibili, quasi polvere. E restano lì per tutto il tempo a mangiarmi la carne e il cervello.
Poi torno a casa, mi spoglio, mi tolgo il trucco e finalmente posso levarle una ad una, queste schegge.
Le appoggio da qualche parte, ma mai abbastanza lontane da farle portare via dal vento.

Mi chiedo quanto un cuore possa sopportare, prima di implodere.
Mia nonna mi raccontava sempre di suo zio, un uomo che conosco solo tramite la foto sulla sua lapide.
Aveva dei baffi lunghissimi, scuri, come i capelli e gli occhi.
Magro magro, quasi emaciato.
Ma uno sguardo buonissimo.
Morì dopo la guerra, in seguito a diversi mesi di amarezza totale nella speranza di trovare un lavoro che potesse farlo guadagnare abbastanza per mantenere la sua famiglia.
Il suo cuore cedette sulle scale del comune, insieme al suo corpo che si accasciò davanti a tutti.
Semplicemente non reggeva più.
Questa storia mi fa pensare che non siamo invincibili proprio per niente, anche quando ci raccontiamo il contrario.

Mia madre invece mi racconta della sua bisnonna, spesso.
Morta di crepacuore dopo aver seppellito sua figlia di otto mesi, ammalatasi tempo prima.
Lasciando così un marito e tanti altri figli, soli.

Di questo parlo.
Della soglia di dolore, della goccia che fa traboccare i vasi sanguigni, le arterie e le aorte e ci fa collassare irrimediabilmente. Esisterà pure un'unità di misura!
Anna Magnani diceva "assicurate de avè le mani pulite bene, prima de toccà er core de na persona". E quanto aveva ragione.
Per questo bisognerebbe riflettere prima di far del male.
Perché non sai mai quanti dolori accumulati ha una certa persona e potresti essergli fatale.

Non so davvero perché alcuni scelgano di fare del male consapevolmente.
Quando avevo quattordici anni ho smesso di parlare, per un periodo.
Scrivevo e basta.
Non parlavo, non sognavo, nemmeno ridevo o piangevo.
Ho congelato qualsiasi emozione, perché mi ero ripromessa di non soffrire più.
E' la legge del più forte, d'altronde. Mi ripetevo questo.
Nessuno può farmi male, perché non lo voglio permettere.

Oggi invece me la rischio.
Lo voglio mettere in mano a tutti, sto cuore.
Voglio che sia una roulette russa.
Come una patata bollente che si passa da mano a mano, finché non scotta più tanto.

La storia dell'imparare dai propri errori è vera.
Mi sono bruciata così tante volte cucinando, che adesso ci sto attentissima. E non mi brucio più.
Vorrei mi succedesse la stessa cosa con le persone.
E' scontato, certo. E infatti per quanto io mi sbatta a cercare di non considerarmi comune, alla fine un po' banale mi ci sento.
Mi sento di fare un po' la scema, a volte, per non entrare in guerra.
Ma è solo perché sono stanca.

Non ho mai avuto tanta autostima, quella poca che ho l'ho guadagnata nel tempo, rendendomi conto che non faccio poi così schifo proprio in tutto.
Da quando sono stata lasciata ho perso anche quel minimo di sicurezza nell'uscire di casa la mattina.
Ogni tanto allo specchio inizio ad elencare a mente le cose che cambierei di me e finisce che perdo il conto e devo ricominciare da capo.
Non mi sono mai sentita bella, nemmeno quando ero di qualcuno.
Questa è una di quelle cose che vorrei cambiare, perché per quanto sia patetico e convenzionale, chiunque ha il diritto di sentirsi apprezzato. Proprio chiunque.

Non sono mai stata una alla continua ricerca di complimenti, anche perché mi imbarazzano il più delle volte.
Ma ogni tanto vorrei che qualcuno si accorgesse dello sforzo e del tempo impiegato per uscire da casa.
Non sono d'accordo con chi dice che l'autostima si costruisce da soli, se fosse così saremmo tutti superuomini e non avremmo bisogno di niente.

Apprezzare qualcosa che hai cucinato è stima.
Apprezzare qualcosa che hai detto è stima.
Apprezzare qualcosa che hai proposto è stima.
E anche guardarti negli occhi e farti capire che sei esattamente nel posto giusto al momento giusto, è stima.
Anche quello.
Ma non arriva mai.