lunedì 31 agosto 2015

Un pomeriggio nel passato.

Ieri riflettevo sul significato della parola Famiglia.
Ovvero quell'invenzione demoniaca che serve come training necessario per giungere nel Regno dei Cieli con più crediti positivi possibili.
La mia è una famiglia strana. 
Ci sono cose che mi hanno sempre fatto pensare di essere la persona più fortunata del mondo, altre la più sola, la più sfigata e la meno compresa di sempre.

Forse è normale, non so.
I miei sono separati da quando avevo forse undici o dodici anni. Insomma un'eternità.
Quando i miei si separarono ricordo di non aver pensato niente.
Era Estate, stavamo tornando dalla Toscana e mia madre prese il coraggio a due mani e mentre guardavo fuori dal finestrino, affrontò un discorso tanto scontato quanto scomodo.
Un discorso di un padre, il mio, che doveva allontanarsi per un po' perché le cose non andavano bene.
E nessuno disse niente. Perché, in fondo, lo sapevamo già.

Ho questo flash costante nella mia mente.
Di una Domenica. Altra parola da abolire.
Una Domenica passata a litigare, ovviamente.
Durante la quale, io, seduta sul letto dei miei, guardavo mio padre allacciarsi le scarpe, mentre in lontananza avvertivo le urla di mia madre.
Non so dove fosse mio fratello in quel momento.
Guardai mio padre e con l'ingenuità di una bambina di forse otto, massimo nove anni, dissi: ma perché non vi separate?
E tagliente arrivò la risposta "mi sa che è proprio quello che faremo, guarda".
Anche lì, non ricordo di aver pensato niente. Ma forse in quel momento mi si squarciò il cuore.
Non so dirlo con certezza.

Negli anni ci hanno sempre provato ad andare d'accordo.
Ma a me non è mai importato.
A me importava solo essere lasciata in pace. Elaborare la cosa a modo mio.
Vivere separatamente le due persone.
Ho sempre dato la colpa a mia madre di tutto. Crescendo l'ho perdonata, anche se lei non lo sa.

Insomma, ieri era Domenica.
Una Domenica lontana anni luce da quella che mi ha squarciato il cuore. Ammesso che sia così.
Da tempo sto disperatamente cercando un articolo che non riesco a trovare in nessun negozio e per questo ho obbligato i miei a venire con me.
Si, i miei. Tutti e due.
Perché da diversi anni siamo di nuovo tutti uniti, in case diverse. 
Tutti uniti è un paradosso, ma non passiamo più il Natale prima da una parte e poi dall'altra.
Stiamo sempre tutti insieme. E per tutti intendo proprio tutti.

I miei adesso si parlano, si telefonano, si messaggiano, escono insieme anche senza figli a carico.
Credo che, in fin dei conti, con tutti gli enormi problemi e disagi che ci sono, il significato di famiglia sia questo. 
Ieri ho attraversato Roma. Anzi, abbiamo.
Siamo arrivati nella vecchia zona dove vivevamo. La prima casa che abbiamo avuto.
E' cambiato tutto. 
Perfino i negozi nel centro commerciale sono cambiati. Quello che al tempo mi sembrava un enorme edificio, adesso non mi pare altro che una discreta galleria nella periferia di Roma.
Ho rivisto una cartoleria dove mi fermavo sempre a cercare qualcosa.
Qualcosa che non mi serviva.

In quel posto, ricordo bene, i miei genitori mi comprarono un peluche piccolissimo a forma di cane per premiarmi del mio primo anno scolastico.
Camminando, sono emerse tante di quelle cose che non sapevo.
Tanti di quei sabati passati in quelle vie. I pranzi fuori, che io non ricordo.
Le spese abbondanti al supermercato, quando ancora si poteva.

E' stato strano tornare indietro.
Proprio adesso che guardo solo avanti.
Tornando a casa di corsa per vedere la partita, non ho potuto far altro che chiedermi come potrebbe essere adesso la mia vita se non ce ne fossimo mai andati da lì.
Chi sarei adesso.
Chi frequenterei.
Chi amerei.

E riflettendoci un attimo, non lo voglio sapere.
Perché va bene così.

giovedì 27 agosto 2015

E invece.

E' tornato un po' di caldo, non me lo aspettavo.
Sto aspettando Settembre con la speranza nel cuore e progetti nelle mani.

Ogni tanto mi viene voglia di prendermi cura di me.
Magari passare la giornata a fare stupide cose da femmina, tipo maschere facciali, provare nuovi shampoo.
Queste stronzate qui che ti fanno sentire appagata, ma che durano il tempo esatto di una doccia. Non di più.

Ognuno si coccola come vuole.
Io ne ho diversi di modi, ma alla fine scopro sempre che non sono altro che piccoli gesti che hanno il solo scopo di riempire qualche vuoto. E passato l'attimo mi ritrovo solo con meno soldi, meno tempo e meno entusiasmo. Soprattutto.

Mi chiedo perché questa vita abbia un sapore così amaro per alcuni e così dolce per altri.
Ieri ci ho pensato e ho detto: ok, basta. Non ho molto di cui lamentarmi.
Poi è passata un'ora.
Ho guardo quello che avevo intorno a me, dopo ho guardato quello che ho dentro di me e ci ho ripensato.
Ho detto: beh, forse qualcosa che mi va stretta ce l'ho. 
Vestiti a parte.

Quindi, la mia domanda è: perché doversi abituare a vivere in spazi così stretti?
Perché farsi andar bene le cose che bene non ci fanno stare per niente?

Se trovassero un modo per convertire in energia la speranza e il groppo in gola che ho ogni santissima volta che schiaccio INVIA per mandare una mail che contiene il mio curriculum, potremmo andarci avanti per anni. Potremmo illuminarci e scaldarci solo con le mie aspettative.
Se anni fa mi avessero detto che lavorare ed essere schiavizzati sarebbe stato l'unico modo per ottenere una libertà, seppur parziale, gli avrei riso in faccia.

E invece.

E' tutto un "e invece".
E invece è andata proprio così, anche se non lo pensavi.
E invece l'uomo di cui eri innamorata anni fa alla fine ha scelto la tua - ex - stronza - puttana - migliore amica.
E invece Psicologia non era la strada giusta per te e hai perso anni preziosi.
E invece tua madre vuole sentirsi dire che ha ragione.
E invece adesso sei senza niente.

E invece, nonostante non ci sperassi nemmeno un po', adesso qualcuno ti ama.

E' tutto un "e invece". 
A volte va bene, altre volte, INVECE, va male.

lunedì 24 agosto 2015

(quasi) Settembre a Roma.

E' quasi Settembre.
Fra poco ricomincia tutto, che poi, cosa sia questo tutto è un mistero.
Cos'è la routine per noi che viviamo nel mezzo?
Si può dire che ricomincia tutto, ma anche niente. Ricomincia tutto e niente.

Più che ricominciare, a me piacerebbe cominciare.
Che già sarebbe qualcosa.

Passo per le vie di Roma, quasi deserta.
La gente sta tornando dalle vacanze, ma non tutti, non ancora.
Vedo due persone, in giro per questa Roma meno calda, meno frenetica.
Ogni tanto si tengono per mano, a volte invece si guardano e non si dicono niente.
Però sorridono, sorridono un sacco.
E lei ride, proprio divertita.

Li guardo e mi si stringe il cuore.
Come quella canzone che dice che "lui è più alto e l'abbraccia da dietro", loro fanno lo stesso.
Lui è uno scudo, è una certezza. 
E' la sicurezza di tornare a casa a qualsiasi ora e non sentirsi soli per strada.

Poi si guardano e gli occhi diventano invisibili, due fessurine inesistenti, stretti stretti fra le ciglia lunghe.
E' così che si tramuta il viso, e il corpo, quando sorridi.
E allora si baciano. Niente di irrispettoso, niente di oltraggioso, perché in mezzo alla strada non sta bene.
Ma non si staccano mai veramente.
C'è sempre un filo che tiene unito tutto quello che hanno.

E' quasi Settembre, quasi piove.
Le temperature si sono abbassate, adesso Roma è bellissima.
E' un piacere immenso guardarla, viverla.
E lo è ancora di più, se come quei due, puoi condividerla con qualcuno.

Roma si fa condividere.
Roma è generosa.
Roma è accogliente.

Percorro le strade della mia città con tranquillità, non c'è traffico.
Il finestrino abbassato dà quella piacevole sensazione di refrigerio, il braccio di fuori raccoglie tutta l'aria fresca che c'è e mi risolleva.
In radio le canzoni di un'estate ormai quasi al termine e in testa la leggerezza e la pesantezza insieme.

Vedo due persone, lui e lei. Insieme.
Lei ha imparato un sacco di cose. Intanto, a stare bene.
E lui è lì, perché non c'è altro posto dove deve stare.
E' tutto così naturale e perfetto che viene voglia di dipingerlo.
Di immortalarlo.
Di fissarlo bene ovunque si possa fissare un ricordo, un momento, un attimo. Una vita.

Quelle due persone, lui e lei, siamo noi.
E se ci avessi visti l'altro giorno ci avrei invidiati un sacco.
Avrei detto "beati loro" e anche "che spettacolo" e soprattutto "non vedo l'ora che succeda a me".
Questo avrei detto.

Bisognerebbe vivere sempre così. In Simbiosi.
Bisognerebbe vivere una giornata di (quasi) Settembre a Roma, ma tutto l'anno.

domenica 16 agosto 2015

Una pausa.

E' una Domenica diversa, oggi.
Una Domenica che mi distrae.
Sarà che ho da fare un sacco di cose.
Sarà che mi hanno lasciato un'intera casa da pulire.
Sarà che dopo una settimana, finalmente, lo rivedo.

Le mie Domeniche, da sempre, sono scandite dal pranzo in famiglia.
Intendo proprio tutta la mia famiglia.
Oggi non partecipo.
Un po' mi dispiace.
Con il crescere ho imparato ad apprezzare quelle cose che, da piccola, odiavo.

Un pranzo in famiglia.
Un Natale a casa.
Anche un sabato sera, perché no.

Ma una volta ogni tanto.

Qualche Domenica fa, mio nonno, mi raccontava che durante il Fascismo, gli uomini sorpresi o accusati di picchiare le proprie donne venivano gonfiati come zampogne, pubblicamente e non, e alla fine, non lo facevano più.
Dice di averne visti tanti così.
Lividi e pieni di ematomi.

Dice che era un avvertimento.

Mio nonno che sotto le bombe ci ha vissuto, è quello che mi ha insegnato l'Arte. 
E l'Amore.
Che forse sono un po' la stessa cosa.
Dalla mia nascita ad oggi, ho vissuto sempre in salotti di una cultura elevatissima, tanto da portarmi ad essere "strana", non conforme al resto dei miei coetanei.
A dieci anni leggevo libri su Sironi ed il Futurismo.

A dodici anni partecipavo alle conferenze d'arte in alcune gallerie private in centro.
A venti anni guardo a quando ne avevo sei o sette o anche meno e giravo per tutte le mostre di Roma.
Questo mi ha insegnato mio nonno.
A guardare oltre e ad avere una sensibilità per il Bello.

Mio nonno che da ventritré a questa parte conserva ogni disegno, ogni stupido scarabocchio lasciato lì per caso, sui post-it nel suo studio.

Mio nonno è stato un Uomo.
Uno di quelli incapaci a fare il padre, ma ottimo nel ruolo del marito.
Quelli di una volta, per capirci.
Da piccola lo guardavo e non capivo il suo attaccamento alle opere d'arte in casa, non capivo perché si agitasse tanto nel vederci correre nei corridoi appendendoci agli arazzi attaccati alle pareti.
Crescendo ho capito.
E apprezzato, soprattutto.

Mio nonno amava mia nonna.
Da quasi quattro anni lei ci ha lasciati, all'improvviso.
Un duro colpo da accettare per tutti.
Ma lui ne è uscito devastato.
Anzi forse non ne è uscito mai.

Mi guarda e mi dice che non ce la fa così, non ce la fa più.
Continua a ritagliare l'oroscopo di mia nonna e lo lascia sul tavolo.
Poi lo rilegge e lo conserva da qualche parte.
La sogna di continuo e spera sempre sia la volta buona che se lo porta via.
Dice che sì, ci sono i nipoti, ci sono i figli e anche gli amici, ma non è la stessa cosa.

E Dio, quanto lo capisco!

Anni fa, mi diceva, erano andati a teatro insieme.
Pioveva e stavano sotto lo stesso ombrello.
Lei era un po' più alta di lui, ma si accoccolava sulla sua spalla lo stesso.
Qualche giorno più tardi, un collega, incontrando mio nonno gli fece i complimenti per l'amante che si era trovato, perché era così bella e così appagata. Si vedeva.
E lui cadde dalle nuvole, non capendo. Appena il collega fece riferimento alla pioggia, all'avvinghiarsi sotto l'ombrello e al teatro, mio nonno capì.
E sorridendo disse: ma è mia moglie.

Questa storia mi aveva insegnato che dopo secoli di matrimonio è possibile volersi ancora bene.
Ecco, questo è quello che voglio.
Voglio che fra trenta-quaranta anni, qualcuno mi veda e mi chieda come sta il mio amante ed io imbarazzata, possa solo rispondere che no, bello mio, quello è mio marito e ci amiamo.
Ci amiamo per tutta la vita.

Questa è una Domenica diversa.



Una Domenica in cui costruisco il mio, di amore.

sabato 15 agosto 2015

Senza niente da dire, ma con molto da fare.

Sono tornata.
Il quindici di Agosto, Roma, è bellissima. Più del solito.
E' bella perché è vuota. O quasi.
E' bella perché sono tornata.
E' bella perché è casa.

Ieri mia madre era a Praga e mi ha mandato un messaggio.
Ha detto che quella città è bellissima e che le ha fatto venire voglia di fare un viaggio insieme a me.
Mi sono commossa.
Ma non sono riuscita a rispondere.
Ho cambiato discorso e la conversazione è variata.

Poi ho pensato fosse un'idea carina, in fondo.
Ho sorriso fra me e me pensando che magari non è tutto perso come credevo.

E ho fatto male.

Oggi sono tornata a Roma.
Mi mancava da morire.
Ma aprendo la porta di casa mi sono resa conto che non è esattamente dove dovrei essere.
Non è un posto sano dove poter rimanere.

Poi di colpo ho capito che ero stata presa in giro, ancora una volta.
Sempre dalle stesse persone.
Questa cosa mi ha incupito, fatta arrabbiare e sgolare.
Nemmeno dieci minuti dopo aver messo piede dentro casa mia.

Mi sembra sempre più chiara la mia direzione e la sto immaginando in modo così forte che, sono certa, mi porterà a qualcosa.

Agosto a Roma è tutto ciò che puoi volere. O odiare.
Sembra le temperature si siano abbassate.
Mi preparo a passare i prossimi giorni da sola. O quasi.
Mi preparo a godermi la casa vuota, disposta a piegarsi ai miei orari, alle mie abitudini.
Sono le mie famose due settimane. 
Quelle dedicate solo al rimettere la testa a posto, a distrarmi. Sono più di una vacanza vera.

Sono le ventidue e zero-sei minuti.
Sono stanca morta.
Ma anche arrabbiata nera.
Ho intenzione di dormire fino alla prossima settimana.
Ho intenzione di fare solo ciò che mi fa stare bene davvero.
E ho intenzione di vivere tutto quello che mi sono persa. Da sempre.

Questo nervosismo gratuito non fa altro che peggiorare.
La cosa che più mi fa male è che a rimetterci sono sempre persone che non hanno colpe.

Me, soprattutto. 

venerdì 7 agosto 2015

Agosto.

Ultimamente piango e mi commuovo spesso.
Non so se sia colpa della pillola o semplicemente ho esaurito il container delle lacrime e mi lascio andare con più facilità.
Qualcosa si è sbloccato, oltre al condotto lacrimale intendo.
Ho passato ben sette anni senza versare una lacrima. Mai.
Nemmeno per le cose peggiori che mi sono capitate nella vita.

Il medico ha detto che è successo perché ho innalzato un muro che mi ha isolato dal resto del mondo.
Sarà stato forse tutto il chiacchierare della gente intorno a me, tutto quel dire "sei una persona forte" che alla fine mi avrà convinto di esserlo davvero.

Ma chi o cosa stabilisce l'essere forti?
Cosa vuol dire essere forti?
Chi si arroga questo diritto infame di decidere chi è forte e chi non lo è?

Sei forte se non piangi? E' una cazzata.
Sei forte se te ne freghi di ciò che succede fuori da te stesso? E' una cazzata.

Dopo anni di non-pianti, adesso li sto recuperando tutti. Nelle forme sbagliate, credo.
Con una fragilità immensa che mi fa tanta paura.
Mi viene da piangere sempre, per qualsiasi cosa.
Anche quando organizzo qualcosa di bello, forse piango proprio perché è bello. Non so.

Anche se ho in programma di cenare con il mio ragazzo.
Mi ritrovo lì a pensare "e se mi stesse dando il contentino? E se in realtà non gli andasse? E se fosse solo un modo per tenermi a bada?". E quindi piango.

Piango inutilmente, alla fine.
Che sensibilità sbagliata.

Quando mi succede qualcosa di bello piango e quando mi succede qualcosa di brutto resto di pietra.
E qui ci sta tutto un bel ringraziamento di cuore a tutte le persone di merda che ho conosciuto nei precedenti ventitré anni.

Per non parlare di quando invece mi sento amata ed apprezzata.
Verso fiumi di lacrime che sembrano incomprensibili, ma in realtà è perché non mi è mai successo.

Sono una grande fan delle lacrime, una sostenitrice del pianto. Fa bene. E' giusto.
Ma vorrei che fosse legato ad emozioni normale, di situazioni normali, vissute da una persona normale che conduce una vita normale.


...però mi rendo conto di chiedere troppo.

lunedì 3 agosto 2015

Vorrei dirti.

Stanotte prima di addormentarmi ho pianto.
Uno di quei pianti liberatori e arretrati.
Quelli che piangi per cose passate.
Ho pianto perché ancora oggi, dopo anni, non ho ancora perdonato me stessa.

Mi rimprovero di aver perso tempo, energie, dignità. Soprattutto dignità.
C'è chi dice che il passato è passato e non serve rimuginarci sopra.
Forse è vero.
Ma quando il passato non fa altro che ripresentarsi, ogni volta, ogni giorno, bussando forte alle porte della tua integrità, beh, forse si fa un po' più di fatica a crederlo.

Non so esattamente quanti anni sono passati.
Non li ho mai contati davvero, perché voglio lasciare questo ricordo in un posto lontano e che sia quasi sicuro.
Anche se il mio desiderio più grande sarà sempre quello di custodirlo in una scatola, possibilmente blindata, lontana dagli occhi, dal cuore, dell'anima e da tutto quello che irrimediabilmente potrebbe tornare a fare male.

Ogni tanto ho un peso sullo stomaco.
Come tutti,  credo.
Giorni fa era talmente forte, talmente pesante, che non mi ha permesso di uscire di casa.

In questi momenti vorrei chiamarti.
Perché non l'ho mai fatto.
E ti meriteresti, invece, di ricevere una mia chiamata. O un mio messaggio.
Te lo meriteresti perché ti è andato sempre tutto bene. E forse è arrivato il momento di prenderti qualche responsabilità.

Ad esempio questa.

Una volta ti ho scritto.
In quella lettera ci ho messo talmente tanto cuore che adesso probabilmente il mio non è neppure intero.

Vorrei dirti che il tuo modo di fare, il tuo modo di giocare, non li trovo più simpatici.
Anzi, non li ho mai trovati simpatici.
Però ci stavo.
Perché sapevo stare solo lì.

Vorrei dirti che le corse che mi hai fatto fare, le discese in picchiata, i tuffi nel vuoto, ecco, nemmeno quelli farei più.
E che, in fondo, nemmeno prima avrei voluto farli.
Non li voglio più fare perché mi hanno fatto stancare, stancare per sempre.
Non ho più le articolazioni buone per concedermelo.

Vorrei dirti che hai fatto l'errore più grande della tua vita.
Ma questo non mi interessa più.
Vorrei dirti che mi hai fatto talmente tanto male che, adesso, chiunque voglia farmi un po' di bene, lo guardo come fosse pazzo.

Vorrei dirti che da anni ho il corpo pieno di ferite e che chiunque ci passi una mano sopra mi devasta e mi fa sentire insicura.

L'unico insegnamento che mi hai dato è stato come rigirarsi fra le lenzuola.
E in quello, infatti, non ho mai avuto nessun problema.

Vorrei dirti che non mi meritavo niente di quello che mi hai inflitto.
E che adesso dovremmo scambiarci i turni.

In passato non ti ho mai chiamato, mai cercato e soprattutto mai insultato.

E non hai avuto nemmeno la riconoscenza di ammetterlo. Di essere umile. Di tenere la testa bassa e sparire, almeno, in silenzio.
Negli anni il tuo nome ha fatto più rumore di un tuono e ancora adesso sento che sei un fantasma che non vuole andarsene.

Vorrei dirti che adesso sto bene.
Che sono felice.
Si, l'ho detto.

Vorrei dirti che lui è più uomo di te e tutti gli altri che ho conosciuto.
E che mi porta a cena fuori, anche senza aspettarsi niente.
E vediamo un sacco di film, insieme, anche senza passare metà del tempo con le mani infilate in umani pertugi.

E vorrei dirti che l'altro giorno sono passata davanti a quella casa. E nonostante tutto ancora non sento lo schifo, ancora non mi viene voglia di strapparmi la pelle.
Perché in fondo, una cosa, una sola cosa, l'ho sempre saputa:

Io da te sono diversa.
Dovevi capirlo solo tu.