mercoledì 20 aprile 2016

La notte, il profumo e quelle cose lì.

Stanotte sotto casa mia c'era profumo d'estate.
Ma non un'estate qualsiasi, no. C'era profumo di mare.
A Roma. In piena città.
Era il profumo di certe serate passate al mare.
O forse non c'era, ma io lo sentivo perché ci stavo pensando.
Ogni tanto arrivano ricordi come mitragliate e stanotte mi veniva da pensare all'Abruzzo.
Ci ho passato così tante estati, ma così tante, che mi avevano nauseato.
Ci ho messo un po' a capire che mi sarebbe mancato tutto quello che avevo lì. Circa qualche anno.
Circa il tempo di rendermi conto che, come tutte le cose che diamo per scontate, una volta arrivati sull'orlo del perderle, capiamo irrimediabilmente che quelle cose sono aria fresca, vita, essenziali per la nostra sopravvivenza. Già.
È un bel classicone notare qualcosa, dargli importanza, proprio mentre quel qualcosa si allontana.
Ad ogni modo certi ricordi, scolpiti nella mente come Mosè nella pietra da Michelangelo, riaffiorano quando meno te lo aspetti.
Quando stai tornando a casa da una serata che ti è piaciuta, durante la quale hai riso, ti sei anche un po' emozionata e magari anche un po' commossa (ma nessuno lo sa).
E non te lo aspetti di certo che dopo aver parcheggiato, chiuso la macchina, preso le chiavi di casa, arrivi un'ondata di profumo di certe serate al mare.
Non te lo aspetti perché sei in città e perché l'Abruzzo è lontano e perché lontano è tutto il resto.
Non te lo aspetti, ma godi.
Ricordo perfettamente le mie estati lì. Non ho mai sopportato nessuno, ovviamente.
Ma nessuno sopportava me, quindi mi sentivo un po' giustificata.
Sì, in spiaggia avevo conosciuto qualcuno, qualche mentecatto che prendeva in affitto la casa da maggio a settembre e per questo motivo si sentiva il re del Lido.
Mia nonna aveva scelto quella casa perché era appiccicata al mare, così tanto che da piccola uscivo direttamente in costume (quando avevo il fisico ZAN ZAN).
Ed in effetti il mare era proprio attaccato. Bastava fare un vicoletto a piedi, in tutto forse 10 minuti di camminata e si arrivava in spiaggia.
Non mi sopportavano, gli altri bambini, perché ero cittadina.
Non è uno scherzo. Non mi sopportavano per questo.
Non me ne vogliano gli abitanti di paesini e varie, ma purtroppo c'è sempre questa ignorante convinzione che le persone che vivono in città siano in qualche modo diverse.
Cioè, per carità, lo sono, lo siamo, ma a cinque, sei, sette, otto, nove anni e via dicendo l'unica cosa che dovrebbe interessare ai bambini è chi conta, chi si nasconde e chi fa tana libera tutti.
Insomma, con quelli del Lido le cose non andavano.
E vabbè, pazienza, mi dicevo.
Così, estate dopo estate, trascinavo insieme a me qualche altro cittadino.
Qualche amico sventurato che avrebbe passato l'estate a Roma se non fosse venuto con me al mare e, alla fine, settimane che sembravano noiosissime, diventavano meravigliose e si tornava a casa con un monte di cose da raccontare.
Bello. Davvero. A pensarci era proprio bello.
Daniele è stato il mio migliore amico per anni. Un rapporto più che fraterno. Così unico e speciale che ovviamente non è durato nel tempo e ad un certo punto le nostre strade si sono separate, senza nemmeno salutarci. Mi è sempre dispiaciuto un po'.
Il mio primo tatuaggio in assoluto l'ho fatto con e per lui.
Un diamante sul polso destro. Anche un po' bruttino in realtà, ma per me resta bellissimo.
Al tempo di tatuaggi ne capivo poco e mi sembrava un'opera d'arte. Adesso che sono passati quasi dieci anni lo guardo e lo vedo comunque un'opera d'arte, anche se è parecchio distante dal concetto stesso.
Ma comunque.
Daniele partiva con me, per l'Abruzzo. O meglio, il primo anno avevamo tentato questa convivenza forzata davvero poco sicuri che potesse funzionare. L'affetto c'era, ma non si sa mai. (Sì, sul viaggiare insieme ad altre persone sono rompicoglioni - e manco poco).
Avevamo passato la settimana più bella della nostra vita. Accoppiata vincente anche in trasferta, io e lui. E questo ci servì tantissimo, perché avevamo un nuovo posto dove volerci bene. E non è poco.
Un giorno mi salvò anche la vita, lì al mare.
Un tizio ubriaco e fatto di qualsiasi droga esistente stava per mettermi sotto con la macchina, mi ha sfiorato di mezzo centimetro e se non fosse stato per Daniele che con prontezza mi ha tirato verso di lui, a quest'ora, probabilmente non starei scrivendo questo nostalgico post.
Ma andiamo pure avanti.
La sera dopo cena uscivamo.
Non sapevamo mai dove andare e cosa fare e al tempo eravamo così piccoli che la patente era un miraggio lontanissimo purtroppo.
Le alternative erano poche: cinema, molo, centro città, pontile, rotonda, spiaggia.
E alla fine si faceva sempre tutto quanto. Perché erano tre cose in croce e perché quando sei tanto giovane nemmeno ti interessa più di tanto.
Ad un certo punto, chissà come mai, ci ritrovavamo davanti al mare, di notte, con la sabbia freddissima sotto i piedi e qualcuno che faceva porcherie qualche fila di ombrelloni dietro di noi.
Non abbiamo mai rimorchiato al mare, non so perché.
Forse perché ci vedevano sempre insieme e pensavano che fossimo una coppia. Ora che ci penso è probabile. Ma vabbè, tanto io scappavo in Abruzzo per rifugiarmi in un posto sicuro, ché tanto a Roma c'era sempre qualche stronzo che mi spezzava il cuore.
Per le successive quattro estati, infatti, non si è parlato d'altro. E lo stronzo in questione era sempre lo stesso. Ma di nomi non ne faccio, ché se un giorno divento famosa e mi associano a quello lì perdo di credibilità.
Dopo aver parlato per ore e ore e ore e ore in spiaggia, a me veniva sempre sonno. Sempre.
Allora mi strusciavo un po' sulla sua spalla e gli dicevo "Dani? Mi porti a casa che ho sonno?" e tanto lo sapeva anche lui che se non erano le cinque di mattina non andavamo a dormire.
Tornavamo verso casa, sempre percorrendo quel vialetto, faceva sempre fresco. Così tanto da mettermi una felpina (che arrivava sempre in prestito da quel Sant'uomo, perché io previdente mai).
Aprivamo il cancello con un magheggio stupido, anche se avevamo le chiavi. Non so perché, forse ci divertiva sentirci un po' Diabolik ed Eva Kant. Non saprei davvero.
Stessa cosa succedeva per entrare nella scala del palazzo: invece che aprire il portone come ogni cristiano sulla faccia della terra, noi ci arrampicavamo su un cornicione alto almeno due metri da terra ed entravamo da una finestra che affacciava all'interno della scala, dove c'era l'ascensore.
Bah, mai capita sta cosa qui. Oggi il pensiero di spaccarmi la testa cadendo sarebbe più forte del brivido cretino di stare attenti a non perdere l'equilibrio.
Questa storia dell'arrampicarsi andò avanti fino a che non stavamo quasi per compiere la maggiore età, quindi eravamo proprio noi ad essere irrecuperabili credo.
Ad ogni modo, una volta rientrati, partiva la gara a chi faceva più rumore. Non volutamente, chiaro.
Ma succede così quando tenti di fare silenzio no?
Cade di tutto e perfino respirare sembra la cosa più rumorosa del mondo.
Ci ritiravamo in camera di corsa per poter ridere liberamente.
Daniele prima di dormire andava in balcone a fumare mezzo pacchetto di sigarette ed io lo seguivo.
Gli dicevo che avevo freddo e lui mi diceva "finisco questa e andiamo", ma tanto poi se ne fumava sempre altre cinque o sei.
Poi entravamo nel letto e nessuno dei due si addormentava prima di un'ora. Parlavamo di tutto, io e lui. Ma ammetto che forse al tempo ero un po' monotematica.
Cercavo solo una maniera per capire dove stessi sbagliando con quello lì di cui non posso fare il nome.
Insomma come adesso alla fine, ma almeno negli anni il soggetto è cambiato.
E il giorno dopo ricominciava tutto.
Il mare, i libri, io e Daniele, il pranzo, la doccia rigenerante, la pennica di ore ed ore, la cena e tutto il resto.
Arrivava l'ultimo giorno di vacanza così rapidamente che sembrava fossero passati dieci minuti dal nostro arrivo. E anche se snobbavamo qualsiasi cosa avessimo intorno, tornavamo sempre a casa con qualcosa da raccontare. E qualcuno ci invidiava pure.
Le mie amiche, per prime, perché Daniele è sempre stato bello come il sole. E mi dicevano "ma davvero dormite nello stesso letto? E non fate niente?" ed io con aria di superiorità e un po' di elitarismo rispondevo "Io e lui? Ma scherzate?! Siamo come fratelli" e ci aggiungevo una faccetta fra lo snob e il fastidioso. Perché quello che c'era fra me e lui lo capivamo solo noi.
In tutti gli anni della nostra amicizia non c'è stato nemmeno un bacio.
O forse sì, a stampo e per scherzo. Al solo pensiero ci veniva da vomitare. Eravamo fratelli noi, eh!
Ecco, c'era questo profumo qui stanotte sotto casa mia.
Profumo di notti d'estate, profumo di sigarette interminabili sul balcone, profumo di paesani che ti detestano, profumo di passeggiate fra la gente, profumo di tutto quello che non ho più.
Perché le cose belle finiscono, esattamente come quelle brutte. Ma quelle belle un po' prima.
E non ti accorgi mai in tempo quando è il momento di godersele.

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