domenica 29 maggio 2016

Storie di prime volte che fanno male.

Lo so, il titolo inganna, ma non è di quello che voglio parlare.
Esattamente un anno fa, per la prima volta dopo ventidue anni - 22, venti + due - ho dormito con un uomo. Mica uno qualsiasi, il mio. O almeno, quello che era mio.
Per la maggior parte delle persone leggere questa cosa sarà come leggere un articolo di Vice (magari): pieno di notizie che non ti servono, scritte da persone che probabilmente non ti piacerebbero se te le ritrovassi davanti e soprattutto pieno di verità che non si sa bene se gestire in chiave ironica o amaramente seria.
Nel mio caso seria. E anche amara.
Non avevo mai dormito con nessuno, insomma.
Nessuno se escludiamo amici, amiche, parenti e compagnia cantante, ovvio.
Intendo dire che nella mia vita, in ventidue - 22, venti + due - anni, non avevo mai spartito il sonno con qualcuno che fosse più di un amico. E non per modo di dire. Qui intendo proprio per davvero.
Probabilmente per il mondo tutto, dormire con qualcuno, non è nulla, niente di speciale, niente di trascendentale. Per me è tutto.
Lo sostenevo da ancora prima che questo accadesse.
Quando una persona dorme si scatenano un sacco di fattori che, il più delle volte, non sbucano fuori quando si è svegli.
Dormire è come ubriacarsi in un certo senso; non hai il controllo di nulla, ti lasci andare nel modo più profondo possibile. Le cose che sono successe durante la giornata ad un certo punto evaporano (quando si è fortunati, a dire il vero), il film che hai guardato mentre cenavi ad un certo punto sembra un ricordo di qualche sera di qualche anno fa e sei già proiettato verso una posizione comoda che ti permetta di prendere sonno e riposare, finalmente, per qualche ora.
Nella mia vita, da una certa età in poi, ho dovuto imparare a costruirmi: voglio dire che ad un certo punto ho dovuto trovare i giusti vestiti e i giusti trucchi e le giuste acconciature per essere qualcuno.
Qualcuno che volevo essere, almeno.
Non voglio dire che se non ci si imbelletta non si è nessuno, lungi da me, voglio dire che, a parte rari casi, nella mia famiglia non ho mai avuto grandi esempi di gente che mi motivasse ed in qualche modo mi coccolasse con le parole. Non so, magari dicendo che sono bella e cose così.
Parlo per ipotesi, perché mia madre da una certa età in poi ha smesso di farlo con me, ma immagino che non tutte le madri siano così e che qualcuna lo dica ancora, alle figlie che ha, che sono belle.
La mia no.
Ad un certo punto della mia esistenza facevo tutto male o almeno questo è quello che filtravano le mie orecchie ed i miei occhi ed i miei sensi quando in famiglia venivo criticata per ogni scelta, dalla più stupida alla più importante.
Nell'età in cui le bambine giocano a travestirsi da grandi, io giocavo ad esserlo davvero. Grande, mica bambina. Magari.
Ad oggi, che di anni ne sono passati parecchi, ancora di tanto in tanto mi capita di sentire un "ma come ti sei truccata? E come ti sei vestita? E come ti sei fatta i capelli?", tutto questo condito con grandi consigli non richiesti che indicano l'opposto di come hai agito tu.
E quando le parole non arrivano, ci pensano gli sguardi di rammarico e delusione - non si sa dettata da cosa - a farti sentire pressoché una nullità. Circa.
Comunque: non sentendomi mai dire di essere bella (anzi), ho iniziato a cercare modi per esserlo e per farmelo dire. Per il fatto di crederci ancora mi sto attrezzando.
Ho trovato la mia dimensione, quello che mi fa guardare allo specchio in modo meno severo possibile: sono un giudice parecchio rompicoglioni.
Questo preambolo infinito per dire che, dormire con me, non è solo dormire.
Dormire con me è entrare dentro di me. Non proprio in senso letterale.
Con il passare degli anni, crescendo, ho capito che non si può essere sempre perfettamente vestite e truccate e acconciate e che ogni tanto capita di dover affrontare il mondo in modo disordinato.
E questo capita soprattutto quando si dorme.
Quando ci si strucca, quando ci si mette la prima magliettaccia che ti sta sei volte e quando ci si rotola talmente tanto nel letto che ci si sveglia con dei capelli alla Mufasa che ciao.
Per questo per me dormire con qualcuno è sempre stato Tutto.
Perché se dormi con me è automatico che io abbia abbassato le mie difese, tutte, e che non faccia difficoltà a farmi vedere da te senza la mega armatura che mi sono costruita e senza le impalcature che mi tengono in piedi ogni giorno.
Dormire è essere indifesi.
E Dio solo sa quanto vorrei sentirmi così adesso, abbastanza al sicuro con qualcuno da permettergli di invadere il mio spazio e permettere a me stessa di mostrarmi per ciò che sono. Dentro e fuori. E stavolta non parlavo di trucco. Non solo, almeno.
Quando mi sento sola provo a fare sempre qualcosa per me.
Non so, magari comprare qualcosa che mi valorizzi un pochino, oppure leggere un bel libro, ma la verità è che comunque non cambia poi molto.
La verità è che un anno fa, a quest'ora, mi preparavo per andare a cena nel ristorante che ormai era diventato il nostro ristorante. Un anno fa a quest'ora avevo una morsa allo stomaco che non mi lasciava in pace, ma allo stesso tempo mi scoppiava il cuore dalla gioia perché finalmente sapevo di essere sulla strada giusta.
Sapevo che, qualsiasi cosa fosse successa, per una volta, non stavo sbagliando e procedeva tutto esattamente come doveva procedere.
Questa mia mania di ricordare orari e date precise deriva solamente dal mio avere una memoria che fa paura. E dico che fa paura perché spesso vorrei invece non averne.
Vorrei svegliarmi ed essere qualcun altro, qualcuno con ricordi diversi, con sensazioni diverse.
Come la protagonista di 50 Volte Il Primo Bacio.
In questo preciso momento della mia vita pagherei oro per abbassare le mie difese a tal punto da fidarmi a dormire con qualcuno, con tutti gli strascichi che si porta dietro.
Allungare la mano nel letto e sentire di non essere soli è una delle sensazioni più appaganti nella storia del mondo.

Non ho mai fatto incubi mentre mi dormivi accanto, eri il mio amuleto contro i brutti sogni.
E da quando te ne sei andato nessuno è riuscito a farmi dormire davvero.

venerdì 20 maggio 2016

Got None.

Got None è una canzone di Robert Post, che insomma per chi non lo conoscesse è un cantautore norvegese un po' sfigatello e infatti mi ci sono sempre sentita molto vicina.
Lo ascoltavo spesso quando ero piccola perché capitava che passassero il suo video nei canali musicali che adesso praticamente non esistono più, ma io ai tempi non è che ci capissi tanto di canzoni e di inglese e di canzoni in inglese.
Ieri mi è tornata in mente quella canzone, così dal nulla.
E mettendola in riproduzione, adesso che di canzoni e di inglese ci capisco decisamente di più, ho ascoltato il testo e mi è sembrato che parlasse di me.
Ogni tanto la musica è magica: ti torna in mente dopo secoli, quando magari è il momento giusto per farlo e tu puoi solo vagarle appresso.
Got None, come suggerisce il titolo, parla di delusione. Cioè il titolo non lo suggerisce, ma la reazione al non avere, in certi ambiti, è proprio quella lì.
In pochi versi Robert Post ha descritto tutto quello a cui mi capita di pensare spesso.
Al fatto di esser soli, al fatto di aver tentato di tutto, di aver cercato di sembrare diversi con scarsi risultati, al frequentare mille persone e non averne davvero nemmeno una e alla speranza di trovare qualcuno che ti prenda così come sei, ferito, abbrutito dalla vita, sconquassato e via dicendo.
Che bella parola "sconquassato", rende perfettamente l'idea secondo me.
Non voglio convincere nessuno ad ascoltare questa canzone, il mio è solo stupore nel cogliere sempre così tanti segni nel mondo, segni che ad un certo punto sono talmente evidenti che sembra davvero qualcuno stia cercando di parlarti senza fartelo sapere direttamente.

Oggi è venerdì, ed io ogni due venerdì vado nello studio di uno psicologo che cerca di rimettermi la testa a posto da anni e credo che a qualche piccolo traguardo ci siamo arrivati, nel corso del tempo.
Gli ho raccontato che la notte tra Domenica e Lunedì ho avuto un fortissimo attacco di panico, come non mi era mai successo e l'orario in cui è avvenuto ciò a quanto pare coincide con il terrore di morire o di star per morire o di sentire qualcosa di così brutto da paragonarlo alla morte.
Vorrei chiudermi le ghiandole lacrimali a più mandate, oggi, se fosse possibile. Perché non faccio altro che tormentarmi, peggio, molto peggio degli altri giorni. E come sempre è solo colpa mia.
Crescendo ho capito che la colpa è quasi sempre nostra.
Di ogni azione, reazione e situazione. Sempre. 
Essere stressati ha senso solo fin quando ti importa delle cose. Fin quando permetti agli altri di stressarti, fin quando permetti alle situazioni e ai pensieri di prendere il sopravvento.
Fin quando metti il resto, tutto il resto, prima di te.
A me è sempre venuto spontaneo questo. Mi sono sempre dimenticata di me.
E se ci penso trovo assurdo che questo accada, perché siamo le uniche persone di cui non ci si può mai dimenticare. Come ci si scorda di se stessi?! Eppure mi è successo e mi succede ancora.
Lo psicologo mi ha detto che ho tantissima pazienza. Insomma lui lo sa.
Mi conosce da anni e conosce la mia famiglia e sa cosa mi passa per la testa il più delle volte e ha detto che ho molta pazienza. E' vero, ma sono stanca.

Ieri, alzandomi dal letto per arrivare in cucina, ho pensato che faccio tantissima fatica.
Non a camminare eh, ci mancherebbe e nemmeno ad alzarmi dal letto - a parte la mattina.
Ho pensato che faccio una fatica immensa a sopportare.
Perché quando sono in piedi io non sono semplicemente in piedi, io sento un peso gravosissimo sulle mie spalle che mi schiaccia in terra, maledetta forza di gravità.
E sento che non ci posso fare niente, perché è così e basta.
L'aver avuto un attacco di panico così forte mi ha allarmata: mia madre ne soffre da anni, a tal punto che si ritrova a dover scendere dalla metro se è troppo affollata o a non guidare in autostrada se ci sono i camion in circolo. Io non voglio che vada così anche per me.
Ma forse l'ho scampata, perché in autostrada ci guido senza problemi e la metro la prendo, anche se la odio.

Sento che intorno ho un sacco di cose che mi fanno male e, per la paura che mi facciano ancora più male, cerco di non focalizzarle per non affrontarle.
Il Dottor Freud con me si sarebbe divertito tantissimo, peccato le divergenze politiche. Forse.
Martedì sera sono uscita, sono andata ad un concerto.
Non un semplice concerto, un concerto da quindicenne, ma andava bene così.
La mia amica Cristina viene a Roma spesso, quando può, ma lo farebbe ancora di più e se potesse si trasferirebbe pure.
Io e lei parliamo un sacco e mi calma sempre quando ne ho bisogno. Certe persone sono una benedizione, altre meglio lasciar stare.
Insomma al concerto eravamo io e lei, a tornare indietro nel tempo, ma senza capsula temporale, solo ascoltando canzoni che ad ogni verso un po' ti pugnalavano un po' ti facevano ridere.
Un errore che faccio spessissimo, da quando sono diventata grande e disillusa, è quello di non dire alle persone che gli voglio bene. Lo dimostro - credo - ma dirlo mi rimane sempre un po' difficile, un po' melenso, un po' bambinesco. 
E lo so che prima ho detto che la colpa è sempre nostra, ma ogni tanto è pure di qualche stronzo che il bene non se lo è mai meritato e te lo trita davanti, il bene che gli vuoi, e ti fa perdere fiducia nell'umanità e diventi schiavo delle paranoie fino a chiuderti completamente.
Comunque, martedì sera, al concerto da quindicenni, la mia amica Cristina che vorrebbe trasferirsi a Roma mi ha detto che mi vuole bene. E io le ho risposto "anche io", ed è vero.
Forse nel trambusto non si è sentito bene, ma insomma è così.

A Gennaio, da un giorno all'altro, quello che credevo fosse l'amore della mia vita, mi ha lasciato senza un perché, senza darmi la possibilità di poter aggiustare le cose.
Ho passato settimane intere a colpevolizzarmi e dire che avrei potuto fare di più, o forse di meno.
Ho passato giornate intere a domandarmi cosa fosse successo per fargli prendere una decisione così repentina per scoprire solo un mese dopo che, chiaramente, c'era un'altra.
Un'altra che si era fatta strada nella sua vita ancor prima che lui fosse mio e a quanto pare, in un modo o nell'altro, ci era anche rimasta.
Non parlo mai di questa cosa perché mi fa vergognare come un cane beccato a fare la pipì dentro casa. Mi fa venir voglia di strapparmi la faccia e mi fa venire voglia di andarmi a nascondere sotto al letto e non uscire più alla luce del sole.
Mi vergogno che il mondo sappia che lui, l'uomo per cui avrei dato tutto se fosse stato necessario, abbia preferito un'altra a me. Una sciapetta senza senso. Una biondina di quelle che ne esistono centomila. E no, non sto rosicando. Sono sinceramente amareggiata e dispiaciuta e delusa e ferita.
Ho passato a piangere le notti in cui lui dormiva. Magari con lei. 
E questa cosa fa un male che non so spiegare.
Mi sono tormentata - e ancora lo faccio in verità - cercando di capire cosa non vada in me e in quello che faccio. Nel corso della nostra storia io mi sono data così completamente, così profondamente, che ripercorrere ogni attimo in cerca di un punto di rottura è impossibile.
Mi guardava e mi diceva sempre "Noi non siamo come gli altri, noi non litighiamo, non facciamo drammi inutili, perché stiamo bene, perché fra me e te funziona e perché doveva andare così".
Ed io oggi non so più chi sia quella persona. E non so più nemmeno chi sono io.
Mi capita di chiedermi se lui mi pensi, di tanto in tanto, se si è pentito magari. Ma la realtà è che la risposta è no. Non gli manco, non mi pensa e non si è pentito.
Io sì. Di non esser stata pronta a volermi bene quando è stato necessario.

Se ci penso mi sento sempre in colpa nei confronti di me stessa, ma non riesco mai a scusarmi come si deve.
Vorrei amarmi quanto basta per non essere ferita anche dal vento fuori casa, dall'aria gelida che ti taglia la faccia. Anche se non è più stagione.
E' strano essere me. 
Se ripenso al mio amore andato a male, posso solo augurarmi che non succeda più.
Non di essere lasciata, lì oltre che ottimista e speranzosa sarei anche scema, mi auguro semplicemente che non venga più sprecato, che io non venga più sprecata e che magari qualcuno si accorga dei mille sforzi e limiti invalicabili che supero per stare sempre un po' più a galla. Solo un po' di più.
Anche se è finita male, mi ha insegnato un sacco di cose la mia storia d'amore buttato via: so cosa voglio, in generale, dagli uomini che incontro, ma soprattutto cosa non voglio. E forse è anche più importante. 
So che nonostante l'insopportabile dolore al cuore fitto e perpetuo, sono ancora capace di emozionarmi. Che non è roba da poco.
So arrossire ad un complimento e so ridere fino a lacrimare se chi ho davanti mi permette di farlo.
E so riconoscere le priorità e, fra queste, dovrei esserci anche io.

Ho bisogno di tantissime certezze, di sentirmi desiderata e ammirata esattamente come qualsiasi altra persona sulla faccia della Terra.
E ogni tanto qualcuno sembra accorgersene, ma non so perché non dura. Non dura mai.
A volte ho il terrore di essere troppo pretenziosa, di sembrare un cucciolo bisognoso di essere accudito ed io un po' mi ci sento così, ma ho come l'impressione che questo spaventi le persone.
Non dipende da me, è qualcosa di intrinseco e chi ha una certa sensibilità se ne accorge da solo ed io non posso farci nulla.
Ma come dice Robert Post forse l'essenziale è solo trovare quella persona che prende anche i lati negativi di te e quelli più strani e quelli più ambigui e li fa suoi, così tanto da smussarli e rimetterti in sesto. O almeno questo è quello che ci si augura.

"...it's a good day for being found, just crawling in the dirt with my head underground. And it's a good day for you to come, collecting all the pieces of the damage done. And after all the bandages are gone I hope you'll find a favorite part you can work on, cause I've got none. Got nothing at all."

Io non so come saranno le cose nel futuro, spero solo siano meno faticose, meno opprimenti.
Quello che so è che a ventitré anni non si dovrebbe passare il venerdì sera soli a casa a piangere.

”Credo che uno dei motivi per cui le persone si aggrappano ostinatamente all’odio che provano nei confronti di qualcuno o di qualcosa sia dovuto al fatto che, passato l’odio, saranno costretti ad affrontare il dolore.”
 James Baldwin 

lunedì 16 maggio 2016

Quasi come se.

Oggi sono malinconica. Tanto per cambiare.
E' che da qualche giorno penso a come le cose si deteriorino nel corso del tempo e mi rammarico di brutto. Mi incupisco proprio.
Sono una fan degli inizi, da sempre.
Gli inizi di qualsiasi cosa. Un nuovo lavoro, un nuovo corso di studi, una nuova persona.
Si insomma quella sensazione lì che sia tutto carino ed ovattato. Non dico bello perché non voglio sbilanciarmi.
Questo è un grosso problema.
Il fatto di non potersi sbilanciare, dico.

Provo un profondo fastidio nel non poter essere emozionalmente libera.
Mi sconforta questo dover sempre tener conto di ciò che pensano gli altri.
Spesso vorrei dire ad alcune persone quanto mi hanno cambiato la vita, anche non sapendolo, anche non facendo niente.
Anche solo facendomi conoscere una canzone che prima ignoravo.
Anche solo facendomi fare qualche passo verso qualcosa che prima non conoscevo.
Anche solo aprendo i miei orizzonti, inconsapevolmente, nei confronti di mondi che prima detestavo.
Ma non si può.
Perché nel 2000 se parli troppo vieni emarginato.

Io non lo so se i nostri avi immaginassero una povertà d'animo simile, nel futuro.
Si è sempre parlato di macchine volanti, di computer velocissimi, di armi potentissime, di televisori sempre più piatti, di cellulari sempre più costosi.
Si è parlato di unioni civili, di religioni avverse e diverse, si è parlato del meteo che fa come cazzo gli pare, si è parlato di tutto, si è parlato dell'inutile, ma a nessuno - e dico nessuno - è mai venuto in mente di parlare di Noi.
Noi inteso come genere umano.
Credo ci fosse troppa fiducia, probabilmente, negli umani del futuro.
Le più grandi menti del Cosmo si sono preoccupate degli aspetti materiali della vita, tralasciando questo ermetismo sentimentale, questa decadenza antropologica, questo essere così miserabili dentro e fuori e senza rimedio. Soprattutto senza rimedio.

Gli inizi, dicevo.
Li amo perché sono quegli attimi privi di lucidità.
Anni fa lavoravo in centro, nell'ufficio stampa del Comune di Roma.
La prima settimana è stata così motivante che quasi non ci credevo.
Non sentivo la fatica, non avvertivo lo sforzo. Non mi spezzava nulla.
Nonostante dovessi prendere ben due autobus per arrivare in ufficio, non mi facevo intimidire.
Per chi non lo sapesse, due autobus, a Roma, è l'equivalente di più di metà della giornata passata su un mezzo pubblico, stipati negli angoli come maiali che vanno al macello, intrappolati fra tessuti umani non propri e costretti a sopportare gente di ogni dove che ti si appiccica invadendo il tuo spazio vitale senza possibilità alcuna di divincolarsi in qualche modo.
Uno schifo, insomma.
E infatti ben presto mi accorsi di tutto quello che la prima settimana avevo accuratamente e mentalmente evitato di notare.
Tempo dopo cambiai lavoro, era simile, ma in un'altra sede e più comodo come orari.
Stessa cosa.

Quando poi cambiai facoltà si verificò lo stesso identico episodio.
Sarà che sono cambiata, negli anni. Sarà che mi infastidisce tutto. Sarà che sono inquieta.
Non lo so cos'è, ma alla fine, mi viene tutto a noia.
Tranne le persone, o almeno non tutte.
A volte io di persone mi ci drogo proprio.

L'errore che si fa, con il tempo, secondo me, è quello di dar tutto per scontato.
Si pensa sempre che le persone che abbiamo accanto ci saranno sempre e sempre nello stesso modo, che le cose che abbiamo intorno faranno sempre parte della cornice della nostra esistenza, che il nostro lavoro resterà tale ed invariato fino alla pensione. E' chiaro poi che uno si stordisce e perde l'entusiasmo. In qualsiasi cosa. In qualsiasi persona.
Ed io vorrei che gli altri non perdessero entusiasmo in me.
Vorrei che l'eccitazione e la curiosità e tutto il resto, tutto quello che all'inizio appare così nitido, restasse identico anche dopo. Anche quando ci si conosce, un po'.
Anche quando si ride insieme e anche se si ride sempre delle stesse cose.
Anche quando si fa tutto difficile. 
E anche quando non te l'aspettavi, ma alla fine ci devi far pace con questa cosa qui, ché tanto non si scappa.
E vabbè.

Stanotte ho avuto un fortissimo attacco di panico. Non mi capita mai.
Credo fosse il secondo in tutta la mia vita.
E succede che tu ti rilassi un attimo, cerchi di sgombrare la mente per dormire in santa pace ed invece il cervello non è di questo avviso.
E allora inizia a riproporti cose passate che hai tenuto nascoste da qualche parte, ma evidentemente non tanto bene.
E poi il respiro ti si blocca e non sai che fare e ti rigiri nel letto sperando passi in fretta. Ed intanto si fanno le tre di notte.

Allora adesso che sono passate un po' di ore ci ripenso.
E mi chiedo perché e non so rispondermi.
Sento una gigantesca pressa sul petto, che mi opprime e comprime.
La dottoressa, come ripeto sempre, dice che bisogna amarsi e bisogna sempre dirsi cose bellissime e la mattina quando ci si alza, guardandosi allo specchio, bisogna mandarsi un bacio.
A me viene un po' da ridere e credo sia un problema.
Io quando mi guardo allo specchio la mattina mi chiedo cosa ci sia di così ripugnante in me da tenere tutti lontani, o meglio, farli avvicinare quanto basta per essere deliberatamente ferita senza possibilità di scampo.
Quasi come se non meritassi cose belle.

mercoledì 11 maggio 2016

20:20

Faccio questo gioco stupido di esprimere un desiderio quando l'ora segna due numeri uguali, non so chi mi abbia insegnato sta stupidaggine, però lo faccio sempre da sempre.
Ogni tanto, se devo essere sincera, ha anche funzionato. Ma forse erano solo coincidenze.
Ci raccontiamo un sacco di cose pur di non dirci la verità, ci raccontiamo che va tutto bene pur di non affrontare il fatto che non va bene niente nemmeno per sbaglio.

E' passato un po' di tempo dall'ultima volta che ti ho visto e non sopporto il ricordo di quell'ultimo giorno. Non sopporto un sacco di cose di quella notte.
Da quando te ne sei andato non mi sento più bella per nessuno e non importa quante persone mi dicano il contrario, io ancora mi vergogno un po' quando mi specchio.
Mi capita di pensare che, in fondo, io non ti sia mai piaciuta.

Intorno a me la gente pretende che io stia bene, che io sia di nuovo quella di prima.
Io non so come dirglielo, non so come dirglielo che di quello che ero prima è rimasto davvero poco.
Lo vedo come fanno roteare gli occhi quando qualcuno pronuncia il tuo nome, perché sanno che io avrò qualcosa da dire e non vogliono sentirlo. Non più.
Come se si fosse esaurito lo spazio limite.

Chi ti conosce davvero, un giorno, anzi una sera, con i negozi in chiusura, davanti ad un caffè finito e un tavolo rosso di plastica del bar sotto casa ti dice "Tu ridi e scherzi per camuffare tutto, ma io lo so che dentro stai morendo ancora ed è normale, ti capisco, io farei lo stesso."
Chi ti conosce davvero ti alleggerisce con una frase di poche parole e tu non devi dire nulla, perché non c'è nulla da dire. Puoi solo farti l'ennesima risata, abbassare lo sguardo e tacere.

Quella notte mi hai piantato un coltello nel petto e ti sei lamentato del mio sanguinare.
Mi hai detto "ti passerà", sminuendo tutto quello che provavo e dimenticandoti che stavi sminuendo te stesso con le tue parole lanciate come coriandoli, ma che per me avevano il peso di tonnellate di piombo. Bisogna stare sempre attenti alle proprie parole.
Ce lo raccontano da sempre che le parole fanno più male di tutto il resto, perché non si cancellano.

Ho il ricordo di me, devastata dal pianto, con la faccia trasformata, il trucco colato e in viso l'espressione di chi questa non se l'aspettava e non la meritava e non la voleva.
E ho il ricordo di te, con le mani sul volante e gli occhi fuori dal finestrino che guardi da un'altra parte e probabilmente pensi che pensavi di sbrigartela in cinque minuti e invece io ti sto facendo fare tardi. Ho ricordi così nitidi che mi fanno paura.

Se penso a quella notte io piango un sacco. Anche ora, se ci penso, piango un sacco. 
Mi dicono "non devi pensarci" ed io spiego che ancora non ho trovato l'interruttore da spingere quando succede, perché sembra strano, ma sono umana anche io.
Io non ci penso, ti tengo lontano, ma ogni tanto sono così sola che l'unica cosa che ho sono questi ricordi fastidiosi.

Gennaio è stato il mese in cui ho pregato ed espresso più desideri che in tutta la mia vita.
E non ha funzionato, nemmeno quando l'ora segnava due numeri uguali.
Siamo a Maggio e non ho idea di come supererò quest'estate.
Vorrei la rivincita. Nella partita che abbiamo giocato ti ho sempre nominato titolare e mi hai voltato le spalle come l'ultima delle riserve. Forse in questo modo capisci anche tu.

Non hai fatto altro che darmi per scontata, anche dopo, anche alla fine. Più il tempo passa, più torno lucida e la rabbia sale e i ricordi belli lasciano spazio ai ricordi brutti.
E' un ciclo continuo, è tutto normale.
E adesso, quando l'ora segna due numeri uguali, io prego Iddio di non incontrarti mai più sulla mia strada e che tu possa essermi lontano anni luce. Sempre, per sempre.

domenica 8 maggio 2016

La Cura.

Zafón dice che il bello dei cuori infranti è che possono rompersi davvero solo una volta, perché il resto sono graffi e basta.
Ecco, io a questo signore vorrei dire che il cuore si spacca ogni giorno di più, in mille frammenti infinitesimali, fino a che non rimane più niente. Fino a che diventa tutto polvere.

Stanotte, rientrando a casa, sono stata per più di un'ora paralizzata sul letto, senza la forza di fare nulla, nemmeno di spogliarmi per mettermi a dormire.
Fissavo il vuoto con in testa una marea di perché, una marea di domande, una marea di dubbi.
Vorrei giustificarmi dicendo che se ho pianto è solo colpa della settimana di pausa dalla pillola, degli ormoni scompigliati e del mal di testa che non mi lascia in pace, ma la realtà è che se ho pianto è esclusivamente perché ogni tanto si presenta il conto della tensione accumulata e crollo anche io. Insieme a tutto il resto.

Pensavo che sono cresciuta nel modo sbagliato.
Disilludendomi. Spesso e volentieri da sola.
Pensavo che sono così abituata alle brutture del mondo che, per me, è tutto normale.
È tutto giusto, è tutto lecito.
Per me è normale stare ore ad aspettare che un telefono squilli, per me è normale pensare di non essere la prima scelta di nessuno, per me è normale sentirmi sempre messa un po' da parte. Sempre un po' indietro, sempre un po' più in là.
Per me è normale perché è così che mi hanno abituata.

Ultimamente mi domando spesso se l'attaccamento che provo io nei confronti delle persone sia talvolta ricambiato allo stesso modo. E la cosa più amara è che se devo rispondermi, alla fine, mi dico sempre di no; mi dico che la gente a me non si affeziona.
Non lo so perché è così.

Ieri mi è successa una cosa strana. Strana, ma bella (addirittura!).
Una mia amica ha fatto leggere un mio vecchio post all'uomo di cui è innamorata: lui ha letto ogni riga estasiato - a quanto dicono - esclamando che le parole che ho scritto sono bellissime e quello che ho cercato di esprimere lo è anche di più.
(Per i più affezionati lettori, il post in questione è "Una splendida giornata di merda", ndr.)
La mia amica allora gli ha detto che il giorno in cui lei è arrivata in lacrime da me, io l'ho abbracciata e poi ci siamo sedute fuori in balcone, le ho offerto un bicchiere d'acqua e l'ho fatta ridere.
Me lo ricordo, in effetti è andata proprio così. Seppur avessi il cuore rotto e rattoppato alla meno peggio anche io.
E a quel punto lui, l'uomo di cui è innamorata, dopo aver sentito questo racconto, ha detto che io sono La Cura.
La cura ai mali del cuore. 
Questa cosa mi ha fatto un po' ridere, perché non me l'aspettavo. E come al solito quando mi dicono qualcosa di bello e che non mi aspetto, io ne rido. Perché non so fare altro.
Non so incassare complimenti, so incassare solo colpi. 

Mi vorrei diversa.
Mi vorrei con meno sentimenti e meno cervello e meno centimetri sulle cosce.
Mi vorrei come quelle donne spavalde che dicono di non avere bisogno di nessuno.
Mi vorrei con meno cuore e più testa. E mi vorrei pure un po' più stronza.

Mia madre dice che non ho pazienza, io invece vorrei farle sapere di tutti quei vaffanculo che mi sono morti in bocca per evitare di creare casini, per evitare di far dispiacere la gente, per evitare che qualcuno ci restasse male.
Vorrei anche dirle di tutte le volte che hanno preferito altre a me e che tutte quelle volte ho semplicemente dovuto girarmi dall'altra parte, chiudere gli occhi e far finta che non fosse successo niente.
Inoltre vorrei dirle che spesso mi maltrattano, in generale, lì fuori nel mondo.
E io prendo tutto questo male e lo ripongo da qualche parte dentro di me, senza mai alzare la voce per paura di disturbare.
Se non è pazienza questa...
Forse più che pazienza è stupidità. In effetti.

Non so perché sia sempre tutto così complicato, non so perché le cose partano bene e finiscano in bagni di sangue.
Non so perché finisco sempre fra le braccia sbagliate.
La cosa che mi fa ridere è che quasi mi ritengo fortunata, quando succede.
Perché, anche se sbagliate, sono comunque braccia che mi tengono stretta da qualche parte. O almeno fingono di farlo.
Passano gli anni, ma io continuo a vedere il mio disfacimento e le mie speranze morire negli occhi di qualcuno che ha tentato il possibile per entrare nelle mie grazie.
Questo è ciò che non concepisco: battersi il petto per attirare la femmina di turno ed una volta avuta battersene invece le palle.
Che come paragone rende parecchio.

Vorrei potermi ancora illudere.
Sembra stupido. Lo è forse in parte.
Ma vorrei svegliarmi la mattina e guardare le buone azioni semplicemente per quello che sono, ricevere complimenti senza ridere, essere abbracciata senza dover pensare di dovere qualcosa in cambio. Vorrei poter credere di essermi sbagliata fino ad ora.
E invece ho come la netta sensazione che avanzando, tutto questo, peggiori e basta.

Cristina è un'amica di mia mamma, da sempre.
Si sono conosciute in un brutto periodo, quando a Roma ci si ammazzava per strada come cani.
Quando a Roma ragazzi di quindici anni morivano affogati nel loro stesso sangue perché la loro idea politica non stava bene a chi teneva in mano le pistole.
In quel periodo mia madre perse un amico e Cristina suo fratello, che guarda caso erano la stessa persona.
Si sono conosciute così. Si sono conosciute in una parentesi storica così nera che fa piangere.
Lei, Cristina, anni dopo si sposò e al matrimonio arrivò con un classicissimo vestito da sposa bianco e sotto gli anfibi. L'ho sempre amata tantissimo questa storia.
Mi piacciono le persone fuori dagli schemi. Mi piacciono le persone a cui non frega niente.
Mi piacciono le persone strane.
Insomma, come le migliori storie d'amore raccontano, i neo sposini scapparono dalle rispettive famiglie e andarono a vivere in campagna.
Dal centro della città, dal centro di Roma, alla campagna. 
Una volta, ricordo, eravamo da loro per il weekend e sul frigorifero c'era un post-it scritto da lui: "ti amo, ancora."
Credo sia una delle cose più belle e romantiche e profonde e carnali e spettacolari che io abbia mai letto. In quell' "ancora" c'era tutto.
C'erano anni e anni di lacrime, di amore, di passione, di rabbia, di amarezza, di bellezza, di sadismo, di stronzate, di errori, di baci, di tutto. In quell' "ancora" c'era tutto.
L'ho sempre tenuta a mente questa cosa. Perché al tempo ricordo di aver pensato "voglio una cosa così, nella mia vita". Una di quelle che arriva e non ci capisci più niente.
E ti viene voglia di scappare in campagna per quanto proprio non ci 
capisci più niente.

Si sono lasciati anche loro.
Ecco il risvolto mortifero di questa bellissima storia d'amore.
Si sono lasciati e pure male.

A me fa solo schifo essere spettatrice di questo scempio generale che è il mondo.
Mi fa schifo perché intorno è tutto un cumulo di macerie. E' tutto un tentare e arrendersi al primo fallimento.
Ed io non ci capisco più niente. Ma non tanto da andarmene a vivere in campagna, no.
Non capisco più in cosa sia giusto credere.

Io ogni tanto penso alle persone che fanno parte della mia vita o a chi ne ha fatto parte.
Penso alle pseudo relazioni che ho avuto, agli incontri occasionali, a chi ci ha provato ed è scappato, a chi non ha mai richiamato, a chi invece lo ha fatto, ma poi è andato via lo stesso. Penso a chi dice di volermi, ma non me lo dimostra; penso a chi non mi vuole e me lo dimostra benissimo.
Penso alle brutte parole che mi sono presa in questi anni, alle ore passate a marcire in attesa di un segno; penso al fatto che mi sento sempre di dovermi aggrappare ad un appiglio per evitare che le cose scivolino. E penso che mi fa schifo, perché dovrebbe essere tutto spontaneo.

Mi chiedo dove sbaglio. Perché nella mia testa è sempre colpa mia.
Non l'ho ancora capito e questo mi fa paura. 
Perché continuo a sbagliare e non so come smettere.
Mi sento così stupida a volte perché mi trovo a fantasticare su quello che vorrei o che vorrei sentirmi dire o che vorrei qualcuno facesse per me.
E non parlo di scritte sotto casa o mazzi di fiori sulla macchina.
Mi sento stupida perché di anni ne ho quasi ventiquattro e l'età dei sogni ad occhi aperti è finita da tanto ormai.
L'uomo di cui è innamorata la mia amica ha detto che io sono la Cura.
E' una cosa bella, ma quando ne arriva una anche per me?

domenica 1 maggio 2016

Io non mi meritavo un sacco di cose.

Tanto per cominciare non mi meritavo questo Maggio.
Maggio vuol dire tantissime cose, vuol dire che mancano due mesi al mio compleanno, anzi qualcosa meno; vuol dire che l'estate è quasi vicina, vuol dire che la sessione d'esami lo è ancora di più.
Maggio vuol dire che sono ormai quattro mesi di torture, di domande, di non risposte, di pianti in solitudine e di occhi stanchi di guardare tutto quello che ho intorno.
Maggio è solo Maggio per tante persone, per me ogni mese che passa ed ogni giorno che passa ed ogni ora che passa, è solo un riadattamento a questa realtà da cui vorrei scappare, ma che mi tiene incatenata come le migliori prigionie consigliano e, ogni tanto, l'acqua sale e la realtà si riempie, come una vasca, fino all'orlo, finché non posso più respirare e mi costringe e soffocare pur non soffocando. 

Non mi meritavo di essere fraintesa.
Non mi meritavo di essere messa in un angolo.
Ogni tanto mi sembra di regredire, di andare avanti senza mai andarci davvero.
Ho sempre avuto il terrore del tempo, del suo dilatarsi e del suo sfuggirci. Sempre.
Anni fa mi tatuai una clessidra, una roba elaborata, coloratissima, che fa solamente da cornice alla scritta "tempus fugit", inciso sulla pelle per ricordarlo sempre. Per guardarlo ogni volta.
Io al futuro ci penso spesso, anzi ci penso in continuazione; ho il terrore di sapere che fine farò, dove sarò fra soli due anni, su quale muro sbatterò la testa fra qualche decade.
Si aspetta sempre un futuro a caso, basta che sia roseo. Non importa come, quando, dove, con chi e nemmeno il perché, in fondo. 
Si aspetta e basta. Si aspetta sempre.
E secondo me non si finisce mai di aspettare perché il pensiero che esista un domani ci fa sempre credere che possa esistere qualcosa di meglio, quando invece probabilmente non è così.

Non mi meritavo di essere lasciata per un'altra, ad esempio.
Non me lo meritavo perché non lo sospettavo, non me lo meritavo perché non è giusto.
E soprattutto non me lo meritavo perché avevo già dato tutto e non ho ancora avuto la possibilità di riprendermi qualcosa indietro.
Quando ti mischi le ossa con qualcuno sarebbe sempre il caso di assicurarsi che, prima o poi, le tue tornino al tuo posto e le sue, al loro.
Credo molto nel karma o giustizia divina o boomerang lanciato che prima o poi ti torna sui denti, non so se faccio male, ma ci credo.
Ci credo perché devo sapere che qualcuno si sta occupando di rendere giustizia a chi è stato ferito senza motivo, perché chi sbaglia paga. O almeno dovrebbe.
Mi piace pensare che un giorno ogni tassello scomposto torni in ordine per chiarire un quadro ancora imperfetto, ma la realtà è che spesso e volentieri il male resta impunito. 
Non so perché accade, ma mi fa schifo.

Non mi merito nemmeno di essere lasciata ore ed ore ed ore ed ore ad aspettare.
O anche giornate intere.
Ad aspettare e basta.
Non mi merito che sia tutto poco chiaro, non mi merito di avere paura e non mi merito di esser presa per un sacco da boxe.
Non mi merito che la gente abbia paura di affezionarsi a me e non mi merito nemmeno di sentirmi inadatta e inappropriata e non abbastanza e stupida e tutto il resto.
Non me lo merito perché io riesco solo a dare, ahimè.

Io lo so che fuori fa tutto schifo, per questo quando si incontra qualcuno che fa sembrare le ore un po' più belle e un po' più leggere, si dovrebbe far di tutto per ancorarlo da qualche parte, vicino a noi e tenerlo sempre accanto.
Ché poi le cose vengono da sole e non c'è bisogno di far niente, anche se al principio questo può terrorizzare. Me per prima.
Qualche volta servirebbe solo quell'incavo fra il collo e la spalla, dove poggiare la testa e lasciare che tutto vada. Che poi chi se ne frega dove va, l'importante è che vada, in fondo.
Altre volte invece si avrebbe bisogno di un po' di normalità, un po' di quiete, un po' di refrigerio.
E adesso che arriva l'Estate non possiamo più permettercelo nemmeno per sbaglio.
Non mi meritavo di perdere anni preziosi appresso a qualcuno che di prezioso non aveva niente.
Non mi meritavo di avere iniziativa quando, dall'altra parte, non ce ne era nemmeno un po'.
Non mi meritavo di essere messa dopo tutto quanto il resto.
Non mi meritavo di fare fatica.

Non merito di essere stanca, non merito di essere disillusa e rancorosa.
Non merito questo senso di inadeguatezza perenne e questo terrore nel fare mezzo passo in più.
Non merito di dover tenere sempre tutto sotto controllo, quando vorrei solo andare a briglia sciolta.
Non me lo merito, 

eppure continua a succedere.