sabato 2 aprile 2016

Aprile.

Aprile non bussa, arriva e non chiede permesso. Un po' come tutte le cose.
La prepotenza mi lascia sempre interdetta, qualsiasi essa sia.
A Roma si respira un'aria diversa, le giornate si sono allungate e ho già visto qualcuna con le cosce di fuori.
Sembra che la gente aspetti la Primavera per sbocciare, come i fiori. E' curiosa questa cosa, a me capita sempre di sentirmi marcire invece.

Certe volte mi sento fuori dal mondo, in senso letterale.
Mi sento come se mi avessero messo in una capsula, ad un certo punto della mia vita, e mi avessero poi liberata di nuovo in una terra nuova e diversa. Forse fa parte della crescita accorgersi che le cose non sono esattamente come ce le ricordavamo quando avevamo quella mente innocente da bambini.
Ogni tanto qualcuno viene da me e mi racconta qualcosa, magari qualcosa di bello ed io ho sempre la faccia un po' incredula e sospettosa, come se da un momento all'altro arrivasse inevitabilmente il punto in cui quella cosa bellissima si trasforma in una tragedia greca senza pari.

Mi trovo sempre un po' in difficoltà quando la gente viene da me e confidarsi.
Sì, perché non so mai fino a che punto la mia percezione delle cose sia reale o meno.
Oggi è sabato, le temperature si sono alzate, non piove da tempo e tutto lascia presagire che le cose stiano andando avanti senza controllo alcuno, alla deriva più totale.
Ci si sente sempre in guerra, quando ci si sveglia al mio posto.

Vorrei riempire le giornate con qualcosa che mi appaghi, che non mi faccia sentire il peso di tutto il resto, che mi rinfranchi anche nella stanchezza, mentale o fisica che sia.
Ma ho paura che non esista ancora quel qualcosa capace di distogliermi dai mille pensieri che la mente riesce a partorire nei momenti meno indicati.
Mi capita di uscire la sera e notare cose che si insinuano prima nella mia testa, poi fra le costole e infine si posizionano sotto le unghie e restano lì, finché non torno a casa.
Sono come piccole schegge invisibili, quasi polvere. E restano lì per tutto il tempo a mangiarmi la carne e il cervello.
Poi torno a casa, mi spoglio, mi tolgo il trucco e finalmente posso levarle una ad una, queste schegge.
Le appoggio da qualche parte, ma mai abbastanza lontane da farle portare via dal vento.

Mi chiedo quanto un cuore possa sopportare, prima di implodere.
Mia nonna mi raccontava sempre di suo zio, un uomo che conosco solo tramite la foto sulla sua lapide.
Aveva dei baffi lunghissimi, scuri, come i capelli e gli occhi.
Magro magro, quasi emaciato.
Ma uno sguardo buonissimo.
Morì dopo la guerra, in seguito a diversi mesi di amarezza totale nella speranza di trovare un lavoro che potesse farlo guadagnare abbastanza per mantenere la sua famiglia.
Il suo cuore cedette sulle scale del comune, insieme al suo corpo che si accasciò davanti a tutti.
Semplicemente non reggeva più.
Questa storia mi fa pensare che non siamo invincibili proprio per niente, anche quando ci raccontiamo il contrario.

Mia madre invece mi racconta della sua bisnonna, spesso.
Morta di crepacuore dopo aver seppellito sua figlia di otto mesi, ammalatasi tempo prima.
Lasciando così un marito e tanti altri figli, soli.

Di questo parlo.
Della soglia di dolore, della goccia che fa traboccare i vasi sanguigni, le arterie e le aorte e ci fa collassare irrimediabilmente. Esisterà pure un'unità di misura!
Anna Magnani diceva "assicurate de avè le mani pulite bene, prima de toccà er core de na persona". E quanto aveva ragione.
Per questo bisognerebbe riflettere prima di far del male.
Perché non sai mai quanti dolori accumulati ha una certa persona e potresti essergli fatale.

Non so davvero perché alcuni scelgano di fare del male consapevolmente.
Quando avevo quattordici anni ho smesso di parlare, per un periodo.
Scrivevo e basta.
Non parlavo, non sognavo, nemmeno ridevo o piangevo.
Ho congelato qualsiasi emozione, perché mi ero ripromessa di non soffrire più.
E' la legge del più forte, d'altronde. Mi ripetevo questo.
Nessuno può farmi male, perché non lo voglio permettere.

Oggi invece me la rischio.
Lo voglio mettere in mano a tutti, sto cuore.
Voglio che sia una roulette russa.
Come una patata bollente che si passa da mano a mano, finché non scotta più tanto.

La storia dell'imparare dai propri errori è vera.
Mi sono bruciata così tante volte cucinando, che adesso ci sto attentissima. E non mi brucio più.
Vorrei mi succedesse la stessa cosa con le persone.
E' scontato, certo. E infatti per quanto io mi sbatta a cercare di non considerarmi comune, alla fine un po' banale mi ci sento.
Mi sento di fare un po' la scema, a volte, per non entrare in guerra.
Ma è solo perché sono stanca.

Non ho mai avuto tanta autostima, quella poca che ho l'ho guadagnata nel tempo, rendendomi conto che non faccio poi così schifo proprio in tutto.
Da quando sono stata lasciata ho perso anche quel minimo di sicurezza nell'uscire di casa la mattina.
Ogni tanto allo specchio inizio ad elencare a mente le cose che cambierei di me e finisce che perdo il conto e devo ricominciare da capo.
Non mi sono mai sentita bella, nemmeno quando ero di qualcuno.
Questa è una di quelle cose che vorrei cambiare, perché per quanto sia patetico e convenzionale, chiunque ha il diritto di sentirsi apprezzato. Proprio chiunque.

Non sono mai stata una alla continua ricerca di complimenti, anche perché mi imbarazzano il più delle volte.
Ma ogni tanto vorrei che qualcuno si accorgesse dello sforzo e del tempo impiegato per uscire da casa.
Non sono d'accordo con chi dice che l'autostima si costruisce da soli, se fosse così saremmo tutti superuomini e non avremmo bisogno di niente.

Apprezzare qualcosa che hai cucinato è stima.
Apprezzare qualcosa che hai detto è stima.
Apprezzare qualcosa che hai proposto è stima.
E anche guardarti negli occhi e farti capire che sei esattamente nel posto giusto al momento giusto, è stima.
Anche quello.
Ma non arriva mai.


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