giovedì 26 ottobre 2017

Come un film di Nanni Moretti

Sono tornata. Più o meno.
Non che sia mai andata via realmente (purtroppo) ma ho avuto un blocco che non mi ha permesso di fare nulla, compreso scrivere su sto blog per emo.
Non so nemmeno da dove cominciare e sicuramente - comunque - non elencando tutto ciò che ho fatto dall'ultimo post ad oggi perché sarebbe riduttivo, banale e poco interessante alla fine.
Sono tornata perché il bisogno di farmi sentire è stato più forte evidentemente. Anche se "farmi sentire" per me acquisisce solo il significato strettamente legato allo scrivere qualcosa qui, per liberarmi di un peso. (Se, magari solo uno.)
Ogni tanto qualcuno mi dice con estrema saccenza che se scrivessi per il mero piacere di farlo, lo farei solo su quaderni o pezzi di carta lasciati qui e lì. No.
Semplicemente no.
Non sono una persona che si mette in mostra volutamente e non sono nemmeno una che cerca l'approvazione degli altri, semplicemente faccio quello che voglio - per quanto mi è possibile farlo.
In passato ho scritto cose per le quali sono stata ringraziata. E non lo dico per vantarmi, anzi mi ha sempre stupito questa cosa e allo stesso tempo lasciata un po' basita. Come può la gente ringraziare ME - proprio me - per qualcosa che ho solo scritto su un blog che leggeranno in 5?
Ebbene, è successo.
Scrivo perché magari può essere utile. O magari può non esserlo, ma può distrarre. O magari semplicemente perché mi va (e vaffanculo oh, sarò libera pure io di fa come me pare si o no?!)
Ultimamente succedono cose.
Ed intendo tante, devastanti, mutevoli cose.
A luglio mi sono laureata. Io.
Io che ad un certo punto stavo mollando tutto, che avevo deciso di condurre una magnifica carriera nei supermercati della zona, qualora mi avesse detto bene.
Io che sono crollata più di una volta in crisi isteriche sui libri, tanto da arrivare a lanciarli da una parte all'altra della casa senza volerne più vedere nemmeno la copertina.
Insomma, io che so sempre stata una capra a scuola mi sono laureata.
E ad oggi ancora non sono abituata.
Ieri per la prima volta dopo mesi e dopo tanti colloqui ho ricevuto una telefonata nella quale mi si chiamava Dottoressa, non che la cosa mi importi, ma ha avuto un impatto assurdo su di me questo appellativo. Ho realizzato che è vero e che i miei sforzi sono stati ripagati almeno in parte.
E mi sono ringraziata per non aver mollato. Certo, non per sentirmi chiamare Dottoressa, ma per aver fatto qualcosa di buono e qualcosa che nel tempo non rimpiangerò. Che credo sia ciò che c'è di più importante.
Il tempo passa e certe ferite non riescono ancora a guarire, anzi. A volte - di punto in bianco - tornano a sanguinare copiosamente senza che smettano senza che passi il dolore.
Mi chiedo se sia normale e spesso mi rispondo che non lo è e allora vado nel panico e inizia a fare più male, fino al punto in cui mi chiudo in me stessa e finisce per farmi tutto schifo.
Nella vita non ho mai voluto fare la vittima, non mi piace lo sguardo compassionevole di chi ti guarda da fuori, come fossi un orfano o un cucciolo abbandonato per strada sotto il diluvio universale.
Non mi è mai piaciuto.
Ma a volte qualcuno mi guarda e dice che nei miei occhi vede tutta la disperazione di una vita intera e una profondità  che raramente ha incontrato. E allora io crollo e mi imbarazzo e dico "ma no ma che dici ma non è vero" e nella testa mi ripeto "ma perché continua a vedersi? Io sorrido sempre" e a fare prove allo specchio su come fingere meglio.
Ecco.
Di questo parlo. Di fingere.
Di fingere che certe cose siano passate, che è tutto a posto e che era solo un periodo.
Dall'esterno sembra essersi rimesso tutto in ordine, non sembrano mai esistite nottate insonni, risvegli dagli occhi gonfi e giornate passate a cercare di trattenere il pianto sempre, ovunque, con tutti.
Ma poi non è così.
Ed è un problema. Un problema enorme.
Perché io non so più come uscirne.
Ho delle giornate buone, piene di cose da fare, piene di vita, piene di attimi intensi; e poi ho delle giornate pessime scandite da pensieri fissi che si alternano ad altri pensieri costanti e martorianti e non so come occupare il tempo per fare in modo che queste cose tossiche non mi mangino il cervello.
Io non sono nessuno per sapere come andrà a finire e se, in fin dei conti, finirà mai davvero.
Avete presente la storia del tanto soffrire che raffredda gli animi e i cuori delle povere vittime inaridite?
È tutto vero.
Da qualche tempo ho questa voglia irrefrenabile di perdere completamente la testa e diventare stupida, stupida come solo una persona obnubilata dall'amore può essere. Eppure non ci riesco.
Non come vorrei.
Avrei voglia di fare un passo avanti senza preoccuparmi di quello che c'è dietro, ma non posso. Perché dietro di me c'è sempre un mostro sacro che mi guarda e mi tormenta ad ogni mio tentativo di allontanamento. E non riesco a lasciarmi andare. Non come vorrei e non come dovrebbe essere.
Il mondo così com'è non mi piace più, ci ho provato, dico davvero, a farmelo piacere, ad amarlo ed apprezzarlo nelle piccole cose quotidiane; eppure non riesce a farsi amare nemmeno lui.
Non riesco a trovare la mia dimensione e a capire quale sia il mio posto dentro ad essa.
A proposito di studio, poi, è successa una cosa inaspettata: ho deciso di continuare.
Perché se ho fatto qualcosa di buono e utile una volta, posso sicuramente provare a duplicare anche questa esperienza. E per il momento è ciò che più mi piace.
Fare cose, vedere gente.
Come un film di Nanni Moretti.

venerdì 30 giugno 2017

"Benvenuto fra i miei pensieri, scusa il maltempo."

E' il 30 giugno e Roma è strana: l'aria sembra più fresca in certi momenti della giornata, in altri, inutile dirlo, sembra di vivere in un forno a cielo aperto.
Da quattro giorni il numero che mi porterò dietro fino al prossimo 26 Giugno è il venticinque.
25. 
Venti. 
Cinque.
Se ci penso bene mi fa un po' paura, quella solita paura di non poter combattere il tempo; che poi, più che una paura, è un dato di fatto.
Mi stanno succedendo una miriade di cose nell'ultimo periodo e la cosa più bella e diversa del solito è che non mi fermo a contemplarle, anzi è come se fossi trasportata dalle onde in una direzione del tutto nuova ed inaspettata, ma senza che queste mi scaglino addosso ad appuntiti scogli o simili.
O almeno, per il momento sembra essere così.
Non amo particolarmente l'Estate, se ci penso probabilmente non l'ho mai amata, ma prima mi sembrava un motivo sufficiente per essere quantomeno allegra del fatto che potessi passare le mie giornate lontano dalla scuola; il che, oggi, mi fa parecchio sorridere perché se potessi tornerei immediatamente indietro.
E' sorprendente come certi mostri sacri, con il passare del tempo, diventino sempre più barboncini da passeggio al cospetto della vita da adulti che ci tocca sopportare ogni giorno.

Ho finito tutti gli esami una decina di giorni fa, mi sono tolta di dosso una zavorra che fino a non molto tempo fa mi pesava così tanto da non farmi muovere da dove ero; un altro dei miei mostri sacri. Ad oggi so di avercela fatta completamente da sola e non ho ancora ben capito esattamente come io ci sia riuscita, ma ehi eccomi qui! 
Ho pensato più volte di lasciare ogni cosa, di non continuare i miei studi, di abbandonare tutto senza però sapere cos'altro fare, senza che avessi un'alternativa in mano. Forse non ce l'ho nemmeno adesso, ma mi sento diversa.
Se potessi parlare con la me di qualche anno fa le direi di non avere paura, ché non è tremendo come sembra e una volta imboccata la strada giusta, è più facile a farsi che a dirsi.
Ho solo un po' di amarezza, qualche strascico dovuto al sapere che avrei potuto perdere meno tempo e avrei potuto agire di più, ma questo è ciò che si dice quando bisogna "imparare la lezione".
Credo di averlo fatto, credo di averla imparata.

Giorni fa ero sul mio balcone, di notte, a cercare di prendere un po' di quell'aria che Roma sembra aver completamente smarrito da ormai un mese a questa parte.
Mi è venuto da pensare a tutte quelle persone che ho perso, quelle che ho trovato e ritrovato e quelle che ci sono seppur marginalmente. E mi ha stupido e rabbrividito e scioccato il rendermi conto di quanto dolore, spesso e volentieri, sprechiamo appresso a ricordi che, un giorno, varranno meno di niente.
Più ci penso e più ho la sensazione di un pugno dritto dritto alla bocca dello stomaco, quel tanto che basta a lasciarti rintronato in qualche angolo per strada.
Ma "non fa niente", mi ripeto.
Me lo ripeto così tanto spesso che mi scorso che invece fa eccome.
Come tutti quei "non fa niente" detti per forza, per mascherare un disagio che da affrontare sarebbe stato troppo duro, quei "non fa niente" ripetuti per convincersi che dietro ogni mancanza di rispetto, ogni minimo gesto noncurante, dietro ogni parola scappata via un po' troppo velocemente, in realtà ci fosse solo sbadataggine.
Succede.
E ancora mi viene da dire "non fa niente".

Ogni tanto devo fare i conti con quello che ho fatto e detto in passato, quando le cose non le ho rese facili nemmeno agli altri e ancora non riesco a superare di esser stata carnefice, in certe occasioni.
Ma così è la vita, dicono.
Anche se ancora certe cose non me le perdono, dicono, arriverà il momento.
Spero solo che i miei, di carnefici, non si soffermino mai a pensare a cosa avrebbero potuto fare e dire invece di comportarsi da perfetti stronzi quali sono. Spero non succeda, perché potrebbe fargli più male di quanto ne ha fatto a me.

martedì 23 maggio 2017

Una sera di Maggio.

Non scrivo da tanto tempo ed è un po' come se non fossi tanto ispirata al momento.
Succedono cose che non sono cose e guardo queste nuove prospettive non sapendo bene cosa sto guardando e se questo mi distruggerà o mi farà del bene.
Ogni giorno è un terno al lotto.

Capita di guardare indietro e non riconoscersi.
Il duemilasedici è stato l'anno che mi ha messo più a dura prova di tutti gli altri, credo; e adesso sembra così lontano che faccio fatica a perdonarmi per quello che ho sopportato contro voglia, nonostante tutto.

La parte più difficile, nella vita di tutti i giorni, nella mia soprattutto, è quella di superare l'imbarazzo e il disagio di aver permesso a certe persone di trattarti come ti hanno trattato; di aver fatto conoscere, seppur candidamente, la parte più sincera e tenera e fragile di te. Quella che davanti agli altri non esce mai, quella che si conserva per le persone speciali.

Giorno dopo giorno mi accorgo di essere cambiata e ancora non ho capito se questo mi piace oppure no. Troppo spesso penso di voler tornare indietro e afferrare quel momento esatto in cui una mia scelta, inconsapevolmente sbagliata, mi ha messo nei casini. Ma non si può fare.
Perché, come al solito, sarebbe troppo facile. 
E le cose facili non esistono.

Sono sempre più vicina ad un traguardo importante: la laurea.
Non perché sia importante una laurea in sé, ma perché non credevo che ce l'avrei mai fatta. Soprattutto sapendo di dover puntare tutto sulle mie sole forze.
E' una cosa gratificante, ma spaventosa. Almeno finché non si avvera completamente.

Come ogni volta in cui mi trovo vicina a qualcosa che bramo, sopraggiunge un terrore intrinseco ed una voce altrettanto connessa che invece di spronarmi mi intima di lasciar perdere, di passare ad altro, di non concentrarmi, di non perdere tempo, di non sperarci.
Ché tanto va tutto male.

Ma a volte, solo a volte, la vita stessa ti fa un regalo, o Dio, o il destino o qualsiasi cosa in cui si crede.
E il regalo più grande che si può ricevere da non si sa bene chi o cosa, è quello di lanciarsi nel vuoto nonostante tutto e provare, anche se si è già parecchio ammaccati.

Anche se fa paura.
Anche se non si ha il coraggio.
Anche se tutto sembra insormontabile.
Anche se alla fine non lo è.

mercoledì 22 marzo 2017

L'amore degli altri.

L. e L. si sono conosciuti nel 1984.
Lei alta meno di un metro e cinquanta, lui immenso.
Erano a cena con amici comuni, quella sera. Lui dal fascino prepotente di chi della vita se ne frega in generale, lei che non sapeva nemmeno cosa avrebbe mangiato a pranzo il giorno dopo.
Da quella sera, non si sa bene come, non si sono più staccati.
Succede così: per caso. Che poi un caso non lo è mai.
Lui era in Italia di ritorno da un viaggio estenuante, con due matrimoni falliti alle spalle e la voglia di riprendere in mano la valigia e partire per non tornare. E lei era lì per seguirlo, anche se ancora non lo sapeva. Ma così è stato.
Canarie, Cuba, Spagna. Un piccolo giro del mondo che li ha tenuti stretti, mano nella mano, per tanti anni. Tantissimi anni. Fra mille problemi, mille drammi, mille risate e tantissimo Sole. Così dice lei.
Le ho chiesto cosa l'avesse colpita, al tempo, di lui e mi ha risposto "mi ha fatto ridere subito".
Ed io ho capito e l'ho sentita molto vicina.
Quando la incontro mi guarda e mi dice sempre "non te preoccupà, che arriva pure pe te, ma non ce devi avè fretta, che è mejo. Fidate!" e poi ride. Ed io appresso a lei.
Adesso le Canarie, Cuba e la Spagna sono lontane anni luce, ma si avverte nostalgia quando ne parlano; L. e L. vivono in una villetta alla periferia di Roma e dopo un tempo che sembra infinito si scambiano ancora simpatiche battute sconce e sorrisi tenerissimi.
Non hanno mai avuto figli, solo due cani, due boxer, che si sono trascinati via brandelli di cuore quando sono venuti a mancare.
Sono più di trent'anni che lui ripete che la migliore lasagna mai mangiata in vita sua è quella della sua dolce metà. L'anno scorso L. si è ammalato: un brutto male che è riuscito a sconfiggere non si sa bene come e lei continua a dire che non ce l'avrebbe fatta a passare il resto dei suoi giorni senza di lui.
Lo dice con il suo fare ironico, ma si vede che ha sofferto.
"E chi je la faceva a non sentillo più russà tutta la notte?" e ride ancora, con la voce un po' roca di una che fuma da quando ha memoria.
Insieme sono una di quelle coppie che fanno sorridere gli altri perché sorridono sempre fra di loro.


B. è una signora elegantissima, con i capelli castani, la pelle olivastra e gli occhi vispi.

Ride praticamente sempre e lo fa in un modo così coinvolgente che se non ridi appresso a lei è davvero un crimine. Viene dall'Argentina e non ha mai perso l'accento nonostante parli italiano meglio di molti italiani. Tantissimi anni fa arrivava a Roma per la prima volta e se ne innamorava così tanto e così profondamente che tornata nel suo Paese aveva deciso di dare lezioni di Italiano presso una scuola di lingue di Santa Fe.
La scuola era gestita da un ragazzo di Roma che si trovava lì per cercare fortuna - e in teoria l'aveva pure trovata - che un giorno decise di organizzare un viaggio in Italia per far vedere agli allievi le cose più belle che il nostro Paese ha da offrire e scelse B. come unica rappresentante e tutrice della gita.
Le disse "vai tu, così ripassi anche l'Italiano e se hai bisogno di qualcosa non ti preoccupare, che c'è mio cugino lì che ti può dare una mano".
B. ride quando racconta questa storia e lo fa con occhi da cui cadono scintille.
Insomma ai tempi non esistevano mail, non esistevano sms, non esisteva WhatsApp. Non esisteva nulla. Tranne le lettere.
Fu così che A. - cugino del proprietario della scuola di lingue in Argentina - ricevette una lettera nella quale era scritto che sarebbe arrivata una ragazza, che sarebbe rimasta una quarantina di giorni e che se fosse stato necessario avrebbe dovuto aiutarla.
A. pensò "mazza che rottura de palle!".
Da quel giorno A. e B. - e non vuole essere un problema di matematica - stanno insieme. Lei non è più tornata in Argentina, o almeno non da sola e in modo permanente.
Le ho chiesto "ma come mai alla fine sei rimasta a Roma?", mi ha sorriso e facendo un cenno con la testa ha indicato A.
Poi si è girata, l'ha guardato e gli ha detto "eh, alla fine te la sei tenuta per tutta la vita la rottura di palle". E si sono messi a ridere. Insieme.


B. e F. sono appena trentenni e quando si guardano negli occhi vedi una cosa che non si può descrivere a parole.

E si potrebbe pensare sia la normale valanga emotiva dei primi tempi, quella che ti travolge e non puoi farci niente.
Ma i loro primi tempi durano da tredici lunghi anni.
Una volta li ho sorpresi a ridere di nascosto e mi è sembrata la cosa più bella che avessi visto in tutta la mia vita.
Fra la gente, in mezzo al locale, ridevano cercando di non farsi vedere.
B. e F. passano tutte le loro giornate insieme, da praticamente tutta la vita e non immaginano un futuro nel quale uno dei due non c'è.
Ho guardo F., una sera, e le ho chiesto come si può - dopo tanti anni - cercare ancora le stesse braccia nel letto, di notte e come si può - dopo tante primavere - tenere duro anche quando sembra impossibile.
Ha abbassato lo sguardo, ci ha pensato posando il bicchiere di birra sul bancone e poi ha detto "...bisogna amarsi".
Ed io non ho avuto altro da chiedere.

giovedì 16 febbraio 2017

Non mi permettono più di sognare.

Non scrivo da tanto, non ci riesco. Non mi sento più capace.
Forse è stato un periodo troppo intenso, troppo pieno e troppo vuoto; forse scrivere non mi avrebbe aiutato. Anzi.
Sono ricaduta in uno di quei vortici che faticosamente cerco di affrontare quando sono completamente in me, quando non lascio che le emozioni negative prendano il sopravvento.
Quando riesco a rimanere in piedi, nonostante tutto.
Ecco, direi che ultimamente in piedi non mi ci trovo quasi mai, anzi mi aggiro per il mondo cercando il primo spazio utile dove sedermi e riprendere fiato, sperando che il resto delle ore che mi separano dalla fine della giornata non facciano troppo male e, finalmente, poi, abbandonare le mie stesse ossa nel letto, per rivedere me stessa il giorno dopo; sperando di specchiarmi diversa, ma non succede mai.

Ultimamente quando mi succede qualcosa di spiacevole penso sempre che mi fa male, ma farà male fino ad un certo punto, perché sono sopravvissuta a cose peggiori.

Questo tipo di pensieri, normalmente, credo faccia sentire le persone più forti; a me fa solamente sentire più affranta.
Non è così che andrebbe affrontato il dolore; con questa noncuranza, con questo atteggiamento piatto di chi ormai scuote le spalle e si prepara all'ennesima dipartita.
Il dolore dovrebbe dilaniare talmente tanto e talmente a fondo da non avere voce per urlare, da non poter cercare riparo da nessuna parte perché si è così in pezzi che un riparo tanto grande non esiste.
Mi sento sparpagliata.
Non saprei come altro descrivermi.

Sento di aver lasciato tanto a tutti e di non aver tenuto niente per me.

Mi viene da chiedermi se le persone che non mi hanno più nella loro vita si ricordino di me e, se lo fanno, cosa ricordano e se ridono o sorridono quando gli vengo in mente.
Se magari hanno un po' di rimorso. O magari gli viene una leggera stretta al cuore quando pensano che sono passati anni luce dal nostro ultimo messaggio, dalla nostra ultima chiamata, dal nostro ultimo momento bello, dalla nostra ultima risata, dal nostro ultimo abbraccio.
Io ci penso sempre.
Sento che mi hanno derubato di tutto ciò che potevo offrire e pian piano lo sto accusando.
Ma la cosa più spiacevole è forse rendersi conto che tutto questo "tanto" che ho gettato con amore ha valore solamente per me. E mentre io mi sento derubata, nessun altro si sta sentendo arricchito.

Ho sempre pensato che in un certo senso la vita si metta a posto da sola.

Di punto in bianco, così, arriva un momento in cui le cose vanno al loro posto senza che tu faccia nulla e tutto sembra andare come sarebbe sempre dovuto andare, ma mi rendo conto che forse mi racconto questa favola perché altrimenti dovrei guardare la realtà delle cose e, ora come ora, fa davvero schifo.
Qualche sera fa ero in macchina e ci pensavo.
Sarà che quando guido e non c'è traffico, Roma, mi suggerisce un sacco di idee, sarà che ormai, ovunque vado, in ogni angolo, c'è una parte del mio vissuto che si affaccia con prepotenza su quella che è la vita di oggi, di adesso e si fa sentire forte il bisogno di respirare a pieni polmoni per non farsi venire l'ennesima crisi di nervi.

Pensavo, insomma, a tutto quello che ho vissuto.

A tutte le persone che ho incontrato.
E l'altra sera, mentre guidavo, mi è venuto da ridere.
Mi trovo a ringraziare quelli che si sono comportati male, ma un po' meno degli altri.
"Quello mi ha tradito, MA ALMENO me lo ha detto."
"Quello mi ha lasciato, MA ALMENO è stato sincero."
E così all'infinito, a giustificare certi gesti e certe frasi non si sa bene per quale motivo.
Mi è capitata una cosa davvero brutta nell'ultimo periodo e pensavo di riuscire a gestirla bene, come faccio di solito, ma invece ogni giorno pesa di più. E sento che non ho vie d'uscita.

Per la prima volta in vita mia ho davvero paura che sia sempre tutto così, tale e quale ad ora.

Che la gente si avvicini per poi andare via, sparire nel vuoto cosmico senza possibilità di farsi riacchiappare. Ho paura che sia sempre tutto così vano, così inutile.
Tutto così inafferrabile.
E che la vita, questa volta, non riuscirà a rimettersi a posto da sola e resterà esattamente quella che è.
Ho sempre giudicato male chi, dopo le batoste, non ha il coraggio di rimettersi in gioco; ho sempre pensato che è troppo facile giustificarsi dicendo di aver sofferto.
Ma adesso capisco che a volte l'abbrutimento è talmente forte da non lasciare spazio nemmeno alla più flebile speranza, nemmeno alla più evanescente voglia di provarci ancora.

Non mi sforzo nemmeno più di mascherare quello che sento, negli anni duemila l'ipocrisia va per la maggiore e bisogna sempre far vedere che stiamo bene, che è tutto a posto, anche se moriamo dentro.

Quando mi chiedono come sto rispondo "mah insomma, periodaccio" ma mi affretto ad aggiungere "dai passerà presto" perché alla gente non piace sapere che non ci credi, che passerà presto.
Non so perché. 
Alla gente non piace niente, non piace sapere che stai male, non piace sapere che stai bene.
La verità è che siamo ottenebrati dalle nostre esistenze, ma amiamo fingere che le altre ci scombussolino un po'.
Ma io proprio non lo so perché.

"Ho imparato che non posso esigere l'amore di nessuno:

Posso solo dar loro buone ragioni per apprezzarmi ed aspettare che la vita faccia il resto."
Diceva Shakespeare.

E qui sento di spaccarmi in due fra la consapevolezza di aver dato tutto e il terrore di non aver dato abbastanza. E non riesco a darmi pace.

sabato 7 gennaio 2017

La vita dopo.

La vita dopo fa schifo: è diversa.
E' un'altra.
Inizia annaspando fra singhiozzi indecenti, correndo per nascondersi da una stanza ad un'altra, da un muro all'altro, per non farsi vedere.

La vita dopo è un vortice nero, un tunnel buio, arredato di ratti e melma.
La vita dopo è schivare il vivere stesso, rifuggendo la luce per paura di bruciarsi.
E' camminare mettendo le mani avanti, ovunque, sempre, per paura di sbattere la faccia su qualche superficie fangosa, umida e tagliente.
E' provare dolore ad ogni respiro, senza nemmeno sapere perché.

La vita dopo è quando cammini in mezzo alla gente e sei più solo che mai, quando non hai niente, nemmeno un incavo di collo dove poggiare il naso freddo nei pomeriggi invernali.
E' quando non sai come arrivare a fine giornata, cosa fare per non pensare, per non vedere, per non sapere. Per non esistere.

La vita dopo ti prende a schiaffi come mai aveva fatto prima, ti spinge in terra con forza e ti calpesta ogni istante.
Ti ricorda che hai fatto male, ancora, a sperare.
La vita dopo ti accompagna, mano nella mano, in qualche emisfero infame, qualche parte del mondo così buia e così nera e così fredda che non pensavi potesse esistere. La vita dopo è solo una parentesi mortifera che ti schiaccia e al contempo ti attanaglia.

La vita dopo è emozionarsi di essere riusciti a ridere. Di nuovo.
E' perdersi negli occhi di qualcuno e pensare di volerci morire, ancora, nonostante tutto.
E' fissare il soffitto con dolore.
E' pensare di accarezzare qualcun altro che non ha la stessa pelle che eri abituato a sentire sotto le mani ogni giorno.
E' immaginare di farsi prendere da braccia estranee e chiedersi se siano in grado di sorreggerci.

La vita dopo è capire che non c'è rimedio e per questo si va avanti. A schiantarsi su nuovi pali, su nuovi muri, su nuovi cuori.
La vita dopo ti insegna che di vite dopo ce ne sono infinite.
E oggi è un anno che la mia vita è diventata lo strascico di un'altra passata. Un anno e un giorno per l'esattezza.
Quello in cui, più di trecentosessanta giorni fa, marcivo logorandomi in me stessa senza sapere cosa fare di tutto quel poco che mi era rimasto.

Ma adesso è tutta un'altra storia.
E tu invece come stai?