lunedì 16 maggio 2016

Quasi come se.

Oggi sono malinconica. Tanto per cambiare.
E' che da qualche giorno penso a come le cose si deteriorino nel corso del tempo e mi rammarico di brutto. Mi incupisco proprio.
Sono una fan degli inizi, da sempre.
Gli inizi di qualsiasi cosa. Un nuovo lavoro, un nuovo corso di studi, una nuova persona.
Si insomma quella sensazione lì che sia tutto carino ed ovattato. Non dico bello perché non voglio sbilanciarmi.
Questo è un grosso problema.
Il fatto di non potersi sbilanciare, dico.

Provo un profondo fastidio nel non poter essere emozionalmente libera.
Mi sconforta questo dover sempre tener conto di ciò che pensano gli altri.
Spesso vorrei dire ad alcune persone quanto mi hanno cambiato la vita, anche non sapendolo, anche non facendo niente.
Anche solo facendomi conoscere una canzone che prima ignoravo.
Anche solo facendomi fare qualche passo verso qualcosa che prima non conoscevo.
Anche solo aprendo i miei orizzonti, inconsapevolmente, nei confronti di mondi che prima detestavo.
Ma non si può.
Perché nel 2000 se parli troppo vieni emarginato.

Io non lo so se i nostri avi immaginassero una povertà d'animo simile, nel futuro.
Si è sempre parlato di macchine volanti, di computer velocissimi, di armi potentissime, di televisori sempre più piatti, di cellulari sempre più costosi.
Si è parlato di unioni civili, di religioni avverse e diverse, si è parlato del meteo che fa come cazzo gli pare, si è parlato di tutto, si è parlato dell'inutile, ma a nessuno - e dico nessuno - è mai venuto in mente di parlare di Noi.
Noi inteso come genere umano.
Credo ci fosse troppa fiducia, probabilmente, negli umani del futuro.
Le più grandi menti del Cosmo si sono preoccupate degli aspetti materiali della vita, tralasciando questo ermetismo sentimentale, questa decadenza antropologica, questo essere così miserabili dentro e fuori e senza rimedio. Soprattutto senza rimedio.

Gli inizi, dicevo.
Li amo perché sono quegli attimi privi di lucidità.
Anni fa lavoravo in centro, nell'ufficio stampa del Comune di Roma.
La prima settimana è stata così motivante che quasi non ci credevo.
Non sentivo la fatica, non avvertivo lo sforzo. Non mi spezzava nulla.
Nonostante dovessi prendere ben due autobus per arrivare in ufficio, non mi facevo intimidire.
Per chi non lo sapesse, due autobus, a Roma, è l'equivalente di più di metà della giornata passata su un mezzo pubblico, stipati negli angoli come maiali che vanno al macello, intrappolati fra tessuti umani non propri e costretti a sopportare gente di ogni dove che ti si appiccica invadendo il tuo spazio vitale senza possibilità alcuna di divincolarsi in qualche modo.
Uno schifo, insomma.
E infatti ben presto mi accorsi di tutto quello che la prima settimana avevo accuratamente e mentalmente evitato di notare.
Tempo dopo cambiai lavoro, era simile, ma in un'altra sede e più comodo come orari.
Stessa cosa.

Quando poi cambiai facoltà si verificò lo stesso identico episodio.
Sarà che sono cambiata, negli anni. Sarà che mi infastidisce tutto. Sarà che sono inquieta.
Non lo so cos'è, ma alla fine, mi viene tutto a noia.
Tranne le persone, o almeno non tutte.
A volte io di persone mi ci drogo proprio.

L'errore che si fa, con il tempo, secondo me, è quello di dar tutto per scontato.
Si pensa sempre che le persone che abbiamo accanto ci saranno sempre e sempre nello stesso modo, che le cose che abbiamo intorno faranno sempre parte della cornice della nostra esistenza, che il nostro lavoro resterà tale ed invariato fino alla pensione. E' chiaro poi che uno si stordisce e perde l'entusiasmo. In qualsiasi cosa. In qualsiasi persona.
Ed io vorrei che gli altri non perdessero entusiasmo in me.
Vorrei che l'eccitazione e la curiosità e tutto il resto, tutto quello che all'inizio appare così nitido, restasse identico anche dopo. Anche quando ci si conosce, un po'.
Anche quando si ride insieme e anche se si ride sempre delle stesse cose.
Anche quando si fa tutto difficile. 
E anche quando non te l'aspettavi, ma alla fine ci devi far pace con questa cosa qui, ché tanto non si scappa.
E vabbè.

Stanotte ho avuto un fortissimo attacco di panico. Non mi capita mai.
Credo fosse il secondo in tutta la mia vita.
E succede che tu ti rilassi un attimo, cerchi di sgombrare la mente per dormire in santa pace ed invece il cervello non è di questo avviso.
E allora inizia a riproporti cose passate che hai tenuto nascoste da qualche parte, ma evidentemente non tanto bene.
E poi il respiro ti si blocca e non sai che fare e ti rigiri nel letto sperando passi in fretta. Ed intanto si fanno le tre di notte.

Allora adesso che sono passate un po' di ore ci ripenso.
E mi chiedo perché e non so rispondermi.
Sento una gigantesca pressa sul petto, che mi opprime e comprime.
La dottoressa, come ripeto sempre, dice che bisogna amarsi e bisogna sempre dirsi cose bellissime e la mattina quando ci si alza, guardandosi allo specchio, bisogna mandarsi un bacio.
A me viene un po' da ridere e credo sia un problema.
Io quando mi guardo allo specchio la mattina mi chiedo cosa ci sia di così ripugnante in me da tenere tutti lontani, o meglio, farli avvicinare quanto basta per essere deliberatamente ferita senza possibilità di scampo.
Quasi come se non meritassi cose belle.

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