lunedì 15 febbraio 2016

Ma che cosa succede quando non si piange più?

Da piccoli si piange sempre, un po' per tutto.
E' il modo che ha quel piccolo corpo, quel piccolo essere, di sfogare quelle piccole frustrazioni.
Sì, perché è tutto piccolo, tutto rapportato e contestualizzato in un'età così tenera che fa male anche solo pensarci, ai pianti dei bambini.
Forse bisognerebbe imparare a piangere da grandi.
Io con il passare del tempo avevo disimparato.
Ad un certo punto avevo smesso.
Non so cosa sia esattamente successo. So solo che, da un giorno all'altro, ho smesso di piangere.
Detta così sembra una gran figata.
Ah, hai smesso di piangere, beata te! 
Beh no, non è proprio così.
Smettere di piangere fa solo più male.
E' come se tutte le lacrime che hai dentro non uscissero mai, non si affacciassero mai al mondo, non spuntassero fuori nemmeno quando è davvero necessario.
Poi qualcosa si è sbloccato. Oltre le ghiandole lacrimali, intendo.
Di punto in bianco un'emozione.
E, ahimè, quanto fanno piangere certe emozioni.
Ho imparato nuovamente a piangere, a sfogare certe frustrazioni. Che non sono più tanto piccole.
Ed ho imparato a piangere di cose belle.
Tutti dovremmo piangere di cose belle, sempre. Affrontare i sentimenti con la stessa leggerezza con la quale si affronta una mattinata di Primavera.
Con lo stesso cuore di quando finalmente arrivi davanti al mare.
Sì, perché io il mare lo odio, ma ti da sempre quella sensazione lì. Quella di esserci davanti.
Quella di farti scoppiare il cuore. Non so perché, è così e basta.
Il mare, ad esempio, è una di quelle cose per cui piangere.
Ci ho passato una vita intera, in spiaggia. Poi sono cresciuta e ho capito che non faceva per me.
Ma mi fa sempre lo stesso effetto.
Mi inquieta e mi rattrista. E mi da anche un po' di speranza.
Magari un giorno ci tornerò. Chissà.
Magari ricomincerò a fare anche questo. Imparerò a tornare al mare. Forse.
Nel duemilaquindici ho pianto un sacco.
E' stato l'anno in cui ho ricominciato. Potrei addirittura segnarne la data sul calendario.
Potrei ripercorrere giorno dopo giorno, pianto dopo pianto. E saprei per certo, che ogni giorno ed ogni pianto sono valsi a qualcosa. Quasi tutti.
Crescendo si piange per cose grandi. Anche se grandi non si è.
E invecchiando si piange per cose nuove, mai vecchie.
Non so da cosa dipenda, non so cosa comporti.
So solo che non si finisce mai, in fondo, di piangere. Ma mi piacerebbe che non si finisse mai di emozionarsi.
In vita mia ho provato tantissime cose.
Tantissime sensazioni e tantissimi fastidi.
Gli stessi dettati da cose, da persone, da situazioni che in primo luogo mi avevano emozionato a dismisura.
Questa è la doppia faccia delle emozioni.
Ti danno tantissimo, solo se sei disposto a perdere tantissimo. Io ho sempre giocato.
Non mi sono mai tirata indietro, perché non credo possa servire a qualcosa.
Mi sono ripromessa di non essere mai come le persone che mi hanno fatto del male. Sembra una stupidaggine, ma non voglio ritrovarmi a trent'anni a pensare a come sarebbe potuto essere se quel giorno mi fossi fidata un po' di più, se avessi amato un po' di più, se avessi combattuto un po' di più.
Non voglio guardare indietro giudicandomi e pensando che avrei potuto dare il massimo che il mio cuore riesce a dare, senza averlo fatto.
Non mi merito una vita - e una vecchiaia - di rimpianti.
Ho giurato a me stessa che avrei sempre amato con il cuore, altrimenti non avrei amato per niente.
E ho giurato al mio fegato che avrei ricominciato a piangere.
E ho promesso al mio cervello e al mio corpo e a tutto il resto che avrei odiato, tanto sì, ma sempre con cognizione di causa.
Nella vita non si può odiare, è fisicamente impossibile, antropologicamente sbagliato, odiare chi prima non si è amato. Sarebbe un controsenso.
Ad oggi posso dire di portare molto rancore. Tantissimo rancore.
Mi appesantisce, sì, ma mi tiene sempre vigile. 
a Gennaio ho pianto molto.
Ancora mi porto dietro qualche strascico. La mattina mi sveglio e ripeto come un mantra che posso farcela, che posso passare le ore successive facendo qualcosa di buono o facendo qualcosa e basta.
Arrivata l'ora di cena, faccio un resoconto della giornata e mi chiedo se sono stata in grado di non deludere le mie aspettative.
Allora guardo attentamente, ripercorrendo ogni ora trascorsa e mi dico "forse sono rimasta immobile, ma sono ancora qui".
Il fatto di "essere ancora qui" vuol dire che sono in quella fase di transizione temporanea, liminale, quella che mi porterà altrove. Anche se non so esattamente dove. E forse nemmeno mi interessa più di tanto.
In Antropologia questo percorso ha un nome: Rito.
O rito di passaggio.
Viene scandito da tre stadi:
Quello di separazione, dove l'individuo si stacca dalla posizione che occupava in precedenza.
Quello di transizione, dove l'individuo è alla spasmodica ricerca di una nuova posizione da occupare, contornandosi di persone che possono essergli utili, persone nella sua stessa fase di ricerca e transizione.
Ed infine, lo stadio di reintegrazione, dove l'individuo viene reinserito nella società con un nuovo ruolo.
Un nuovo obiettivo.
Ecco, sento che sto aspettando quel momento. Il momento in cui riuscirò perfettamente ad integrarmi di nuovo in qualcosa. Anche in qualcuno.
Ma adesso il tormento di non sapere dove andare, non sapere cosa fare, non sapere con chi parlare, non sapere chi amare, chi aspettare, mi schiaccia e mi destabilizza davvero davvero, davvero tanto.
Ho un vuoto temporale alle spalle, non so come sono arrivata dove sono ora e ho paura di arrivare da qualche parte, senza saper raccontare il percorso che ho fatto. Perché non l'ho vissuto.

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