giovedì 27 novembre 2014

Non volevo, ma ho dovuto.

Avevo smesso di ascoltare quella canzone forzatamente, ma l'ironia del destino ha voluto che capitasse in una riproduzione casuale senza lasciarmi nemmeno il tempo di metterla a tacere subito.
Troppo facile pensare di ignorare qualcosa affinché non ti faccia male.

Mi sono seduta e l'ho ascoltata. Dalla prima all'ultima strofa. 
E ogni tanto associavo la mia voce a quella del cantante che sofferente continuava a ripetere qualcosa sui sogni, sul desiderio.
Più l'ascoltavo, più mi ripetevo che è una canzone spettacolare.
Talmente tanto che il giorno in cui tu mi dicesti "questa mi fa pensare a te, sentila", non potevo credere che me l'avessi dedicata. Proprio quella, proprio a me.
L'ho ascoltata fino a consumarla, fino a consumarmi. Fino a farmi male.
E poi l'ho dovuta scordare.

Oggi la riascolto e mi chiedo il perché di tante cose.
E non mi rispondo, che è forse la parte peggiore di tutte.
Quelle parole, quella musica, quella melodia, fanno parte di un'idea che mi ha cullato per tanto tempo.
Forse addirittura da prima che la partorissi.
Ogni strofa che risento affonda come un coltello nella carne, poi alzo il sopracciglio e mi dico che sono coraggiosa. Me lo dico da sola perché nessun altro lo sa quanto me.
E allora canto e sono addirittura felice.
Perché la canzone è bella e non fa niente quanto faccia male, ho ancora la voce per cantare questa e altre cento strofe.

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